Alla Fenice: carriera di un libertino che non vuole crescere
E’ un’affermazione disarmata, così semplice e così vera! Anche Tom, come tutti gli esseri umani, desidera essere felice, ma non ha le idee chiare su come fare. Non sa chi è né quali sono le sue reali esigenze e quindi può solo continuare a sbagliare. O, per meglio dire, nel più profondo del cuore sa di cosa ha bisogno: dell’amore, quello vero, semplice, oblativo, che gli offre Anne; e di tanto in tanto, quando lo prende il disgusto per la china scellerata lungo la quale sta precipitando, la nostalgia per la bellezza di un sentimento umano riaffiora dentro di lui, per poi rinabissarsi come appesantita da un’impotenza morale o da una viltà esistenziale senza rimedio.
E così Tom torna ad agitarsi come una falena impazzita, risucchiato da un’irrefrenabile ansia vitalistica in un vortice di emozioni che lo alienano sempre di più dal suo vero io fino alla pazzia. Dal bordello di Mother Goose al matrimonio trasgressivo con la barbuta Baba la turca e alle velleità filantropiche alimentate da una macchina farlocca che trasformerebbe le pietre in pane, la carriera del libertino precipita verso il nulla. Una corsa autodistruttiva fomentata con zelo da Nick Shadow, il diavolo, che allontana Tom dall’amore che lo renderebbe felice e lo avvia verso esperienze sempre più artefatte e quindi sempre meno rispondenti alle esigenze dell’umano.
Alla fine, l’amore di Anne salverà a Tom l’anima, che Nick Shadow vorrebbe trascinare con sé all’inferno, ma non la salute mentale; il libertino chiuderà la propria carriera in manicomio, libero finalmente di affidare tutto se stesso all’amore di Anne in cui vede la dea Venere, perché la perdita della ragione lo ha restituito ad una sorta di infanzia in cui le pretese dell’orgoglio adulto lasciano il posto ad un tenero abbandono ai sentimenti.
La trama dell’opera fu suggerita a Stravinskij, come è noto, da un ciclo di incisioni settecentesche di William Hogarth intitolato appunto “La carriera di un libertino”. Il libretto fu affidato a Wystan Hugh Auden e dalla sinergia fra musicista e scrittore uscì un’opera singolarissima, una sorta di favola grottesca e moralista che si snoda all’interno degli schemi strutturali e musicali tipici del melodramma italiano fra fine settecento e inizio ottocento, grosso modo la stessa epoca in cui è ambientata la vicenda, ma magistralmente aggiornati attraverso una ritmica ed un’armonia squisitamente novecenteschi. Quindi, se i recitativi, ora secchi ora accompagnati, si alternano ai numeri chiusi come arie, duetti, quartetti, cori, cavatine e cabalette, è evidente che queste forme non sono più le stesse della tradizione. O, per meglio dire, sono le stesse, ma come viste attraverso una lente deformante, che ne altera le fattezze pur lasciandole riconoscibili. Ne deriva un effetto che spazia dal comico al grottesco al surreale, restando sempre elegantemente parodistico; per cui si può ben dire che il neoclassicismo di Stravinskij, in “The rake’s progress”, si presenta come l’omaggio sincero ma anche divertito che l’artista moderno tributa ai suoi padri, mescolando l’affetto riservato a coloro che ci hanno preceduto e ci hanno aperto la strada con la tenerezza ironica con cui si guarda ad un mondo comunque superato.
Purtroppo, come aveva preconizzato Carla Moreni su “Il Sole 24Ore”, il punto debole de “The rake’s progress” in scena alla Fenice si rivela la direzione di Diego Matheuz, sotto la cui bacchetta poco ispirata, forse troppo prudente, la straordinaria partitura sembra sbiadirsi, spegnersi, mentre le ragioni armoniche, ritmiche, timbriche del suo fascino risultano spesso come attutite. Per fortuna lo spettacolo può contare su di una compagnia di straordinario livello, in cui la giustezza del canto si fonde con la totale adesione alle esigenti richieste della regia, nella realizzazione di personaggi di eccezionale verità artistica. Di assoluto valore anche la prestazione del coro, che, guidato da Claudio Marino Moretti, risulta pienamente all’altezza dell’arduo impegno attoriale e vocale richiesto.
Memorabile soprattutto il Nick Shadow del basso-baritono bergamasco Alex Esposito, iperattivo, frenetico, agitato da un’energia negativa divorante che non gli dà mai pace e non concede pace a chi gli sta attorno. La sua è una presenza fastidiosamente incombente su tutti gli altri personaggi, quasi a voler affermare il suo potere su di loro attraverso una fisicità pesante, soffocante, che si esprime toccando, stringendo, afferrando continuamente.
Ci prova anche con Anne, una Carmela Remigio di deliziosa e limpida liricità, padrona del ruolo sul piano vocale e capace di mettere a fuoco con efficacia la non semplice personalità di un personaggio ove il carisma femminile si esalta fondendo delicatezza ed ingenuità con una non comune forza d’animo. Ebbene, Nick sa che Anne è l’unica che sfugge al suo potere e fa di tutto, ma senza successo, per imporlo anche a lei, brancicandola, palpeggiandola con aggressività, con volgarità. Vuole sporcarla, corromperla, trascinarla in quella palude malsana di velleità e fantasie ove sta affogando Tom Rakewell.
E’ questi un Juan Francisco Gatell superiore ad ogni elogio per la piena adesione al personaggio voluto dalla regia: un adolescente scervellato ed irresponsabile in cerca di emozioni e con poca voglia di far bene, sempre insicuro, pronto a pentirsi del male fatto ma anche a dimenticarsene subito dopo. Nick lo soverchia, lo domina, con la sua timbrata, robusta voce di bass-baritone, di bel colore e morbido impasto, e con la sua presenza fisicamente invadente, pesantemente cameratesca e minacciosa insieme. Tom, al suo fianco, l’atteggiamento approssimativo ed incerto da ragazzino che non ha uso di mondo, la fresca voce tenorile ad esprimere una irrimediabile e perenne adolescenza, ne è la vittima designata.
Il giovanotto, del resto, è destinato a subire, perché il percorso suggeritogli da Nick non lo conduce verso l’autonomia che deriva da una piena consapevolezza di se stesso, ma lo condanna a regredire nella direzione di un infantilismo sempre più accentuato, ove la dipendenza da qualcosa o da qualcuno è il segno del rifiuto della maturità. Così Tom non è solo la vittima dell’aggressività fisica e psicologica di Nick, ma anche di quella erotica di Baba la Turca (bella e brava il mezzosoprano viennese Natascha Petrinsky), che, in versione “dominatrice”, roteando il frustino fa del malcapitato giovanotto ciò che vuole. Analogo è il rapporto che Tom ha con Mother Goose, ottimamente caratterizzata dal mezzosoprano rodigino Silvia Regazzo, che si impadronisce del giovane come preda personale, riservandosi il diritto di iniziarlo ai piaceri del sesso nella sua qualità di maitresse del bordello.
Del resto, il mondo che circonda Tom è indifferente o addirittura ostile nei suoi confronti. Così si presenta l’azzeccato Trulove, il padre di Anne, del basso Michael Leibundgut, chiuso nel suo perbenismo borghese dove c’è tanto buon senso ma anche la rigidità di chi non sa entrare in sintonia con le esigenze delle giovani generazioni. Ed è così anche lo stralunato Sellem del tenore Marcello Nardis, un banditore grottesco ma anche privo di ogni spessore umano come il personaggio di un cartone animato; ed il Guardiano del manicomio del basso-baritono padovano Matteo Ferrara, un kapò sbrigativo piuttosto che un infermiere, per il quale Tom è ormai niente più che un demente da tenere sotto custodia perché non faccia danni.
Alla base dello splendido, studiatissimo, stimolante spettacolo realizzato per la Fenice da Damiano Michieletto (regia) con Paolo Fantin (scene), Carla Teti (costumi) e Alessandro Carletti (luci), c’è proprio la visione di un mondo adolescenziale falso, fittizio, in cui Nick vuol trattenere Tom impedendogli di prendere coscienza di sé e della realtà. Il male, dunque, secondo questa convincente concezione, è rappresentato proprio dal restare chiusi in un paese dei balocchi dalle attrattive più immaginarie che reali, ove Tom sprofonda sempre di più perdendo di vista la verità della vita, cioè l’amore di Anne.
Si incomincia con il sipario in glitter che chiude il palcoscenico all’ingresso degli spettatori e che sarà alzato all’inizio di ogni atto; con la sua lucentezza sfacciata ed artificiale rappresenta un’introduzione coerente alla “carriera” di Tom, ravvivata da lustrini il cui splendore apparente si spegne ben presto per rivelare prima il ridicolo e poi la tragedia. Si prosegue con la prima scena, ove l’atmosfera rassicurante ma anche un po’ claustrofobica del mondo di Trulove è resa con chiarezza descrittiva mettendo in scena i simboli più comuni della tranquillità borghese: l’automobile amorevolmente accudita, il barbecue fumante, il confortevole gazebo nel verde...
Dopo di ciò cambia tutto e, nelle scene successive, si sprofonda nel caos del mondo evocato da Nick per irretire e sedurre Tom. L’elemento scenografico di base è una piscina, che dapprima è dimora accogliente di tutte le infantili attrattive offerte alla cupidigia del ragazzo, poi si trasforma, in un processo lento ma inesorabile di degrado, nel suo contrario, cioè in un luogo di sofferenza e di morte, ospitando nell’ultimo atto prima il cimitero e quindi il manicomio; a confermare, con l’efficacia della soluzione teatrale che dà forza e pregnanza all’intuizione concettuale, che l’attrattiva del male prima o poi si rovescia e mostra il suo vero volto, che non è per la felicità dell’uomo ma per il suo esatto contrario.
Fino alla scena dell’asta, dunque, assistiamo ammirati, anche se un po’ frastornati, ad un’esuberanza di invenzioni registiche che hanno come scopo di sottolineare l’artificiosità e la vacuità dei piaceri che Nick propone a Tom. E’ un trionfo di lustrini, brillantini, gigantesche scritte al neon riportanti i nomi dei peccati capitali, oro sfacciatamente finto che riempie la vasca della piscina, pupazzi gonfiabili di plastica, palloncini rossi a forma di cuore...Anche gli amplessi, notevoli per varietà di soluzioni, dell’orgia nella piscina, sono simulati in maniera da dare l’impressione di un gioco meccanico, perverso certo ma insieme stucchevole come un ripetitivo girotondo infantile. La stessa Baba è caratterizzata come un grottesco personaggio da fumetto per adulti. E’ un mondo di plastica, insomma, dove può smarrirsi solo un adolescente scervellato come Tom, che all’amore reale e quindi impegnativo di Anne preferisce delle fantasie multicolori.
Ma quanto questo gioco sia pericoloso, quanto il diavolo sia abile nel confondere l’uomo separandolo dalla realtà e spegnendo in lui le evidenze fondamentali del vero, del bene e del bello, si vede presto nella scena del cimitero. Qui, sul fondo della piscina diventata un enorme sepolcro corroso dal tempo, Nick cerca di riscuotere i frutti del suo servizio, incitando al suicido Tom per dannarne definitivamente l’anima; una scena memorabile per la tetra, desolata ambientazione, al cui interno si esalta la bravura dei protagonisti e di Alex Esposito in particolare nel realizzare le geniali, minuziose indicazioni gestuali e di movimento della regia. Una regia che ha modo di esaltarsi anche nella scena del manicomio, dove ogni figurante (che bravi i coristi della Fenice!) rappresenta un personaggio a sé nella diversità dell’atteggiamento con cui esprime una sofferenza così difficile da comprendere e quindi da soccorrere. E ancora una volta va ribadita tutta l’ammirazione possibile per il lavoro svolto anche in questa occasione da Damiano Michieletto, in cui freschezza e generosità della intuizione artistica (si pensi anche alla scena finale, ove Nick sopravvive alle pugnalate degli altri personaggi a dimostrare che il male è una presenza inevitabile su questa terra) si uniscono all’impegno nel lavoro accurato, meticoloso, con i solisti, con gli artisti del coro, per portare tutti a dare il meglio secondo una visione culturale profondamente rispettosa dell’opera, del teatro, del pubblico.
Alla serale cui si riferiscono queste note, successo calorosissimo per tutti e in special modo per i tre protagonisti.
Adolfo Andrighetti
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