A Venezia 71 Leone d’ Oro alla Carriera per Frederick Wiseman
E fino alla fine degli anni 80 il documentario non potè circolare liberamente negli USA. Va sottolineato che i continui problemi di circolazione hanno spinto il regista a mettere in piedi nel 1997 una sua casa di distribuzione, la Zipporah Films che porta il nome di sua moglie.
Tra ‘Titicut Follies’ ed il suo ultimo film passato quest’anno a Cannes ‘National Gallery’, vi sono numerosi lavori straordinariamente significativi come ‘Near Death’ girato in un reparto di terapia intensiva, ‘Blind’ girato in un istituto per non vedenti dell’Alabama, ‘The Store’ in un rutilante centro commerciale texano, ‘Boxing Gym’ in una palestra di boxeurs, fino al penultimo lavoro ‘ At Berkley’, dove l’autore continuamente costruisce sottotraccia l’utopia di una tensione artistica dell’istituzione stessa.Tra tutti ‘l’Amour Jouè’ dove racconta l’eredità storico-artistica della più antica compagnia teatrale del mondo tuttora in attività: La Comédie Francaise.
Nel 2011 si era addentrato dietro le quinte del Crazy Horse (presentato a Venezia 68) con sguardo meticoloso, lasciandosi contagiare dalla seduzione e dalla celebrazione della donna, dalla professionalità e dall’ambizione estetica con cui il corpo femminile viene sublimato nei vari numeri, ma, nonostante questa adesione quasi inevitabile, il suo occhio coglie, trasmettendolo allo spettatore, il gelo autistico di questa struttura. Impossibile guardarlo e non riandare per antitesi a quel ‘Titicut Follies’ che è il titolo del musical messo in scena dagli ospiti dell’istituto, le cui scene aprono e chiudono il documentario, ad indicare non solo una forte consapevolezza del film, ma anche la paradossale natura di performance attribuita alla malattia mentale all’interno dell’istituzione psichiatrica, che continuamente obbliga i pazienti ad esporsi per osservarli e giudicarli.
Il manifesto del film con l’immagine di un corpo nudo, di spalle, con le braccia appoggiate al muro diceva così: ’Non voltare le spalle a questo film..se apprezzi la tua mente e la tua vita’.
In ogni opera di Wiseman si chiarisce la differenza tra ‘cinèma verité’, dove il regista abitualmente interviene nella realtà filmata ponendo delle domande ai soggetti ripresi, e la sua peculiare ricerca sulle istituzioni sociali e sulle persone, unicamente concentrata nell’osservazione, tanto da escludere sempre il ‘voice-over’.
In ‘National Gallery’ il regista penetra ancora una volta in un luogo chiuso, dove si svolgono varie attività, sviscerandone il funzionamento ed i significati.
E’ sempre costante l’intreccio tra il lavoro vivo (la manovalanza operaia che smonta o monta le varie mostre, gli addetti alle pulizie che lucidano i pavimenti con i quadri che vi si specchiano all’incontrario) e le parole degli storici dell’arte che lavorano in profondità sull’ambiguità e l’interpretazione di alcune opere, mettendo di fronte agli occhi dello spettatore la bellezza spesso insostenibile delle forme e gli enigmi da sciogliere.
E ancora, gli incontri tra i gestori del Museo che discutono sulla salvaguardia ed il restauro di un’opera d’arte, e la lettura tattile delle riproduzioni dei quadri da parte di un gruppo di non vedenti.
Nel suo film il museo nazionale inglese diviene un intreccio inestricabile tra bellezza, produzione di pensiero e struttura economica. Un macrocosmo non sondabile fino in fondo, esattamente come il senso stesso della visione che poeticamente Wiseman esplicita nel gioco dei volti dipinti che ci guardano e che a loro volta sono da noi guardati.
Mariateresa Crisigiovanni
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