Trovatore alla Fenice: “di quella pira” e molto altro ancora
E per questo servono grandi cantanti” (Muti, “Verdi, l’italiano”, p.86).
Lo stesso compositore scelse con una cura particolare la prima interprete di Leonora, il soprano Rosina Penco, che fu, almeno fino a quando non decise di virare verso il repertorio rossiniano tornando verso uno stile di canto giudicato da Verdi freddo e passatista, una delle cantanti più apprezzate dal rude maestro di Busseto, poco incline, almeno nella professione, alle smancerie e alle lodi gratuite.
E voce di assoluto valore, anch’essa voluta da Verdi, deve considerarsi il tenore Carlo Baucardé, che riscosse un successo strepitoso, nei panni di Manrico, alla prima del 19 gennaio 1853, al Teatro Apollo di Roma.
Insomma, per “Il trovatore” voci, ancora voci e possibilmente grandi voci. Ma grandi in che senso? Non in senso fisico, cioè imponenti, poderose, massicce. Neppure nel senso che possiedano la forza e lo squillo per eseguire, nella cabaletta “Di quella pira”, un Do al fulmicotone, inventato per primo da Baucardé e poi consacrato anno dopo anno e recita dopo recita da una tradizione immarcescibile.
E pensare che Verdi aveva messo un Sol...
Ciò non significa, naturalmente, che l’artista che esegue quel fatidico Do sia un cattivo Manrico; ma piuttosto che non basta eseguire bene questa nota per essere promossi nel ruolo. E’ necessario, invece, un canto duttile ed espressivo, capace di alternare, attraverso un fraseggio vario e stilisticamente appropriato, gli accenti incisivi e roventi agli appassionati involi sentimentali; un canto che sappia essere teso come una lama d’acciaio ma anche nobilmente espansivo; un canto, insomma, appropriato per un giovane eroe romantico, che attacca il nemico con sprezzante spavalderia ma subito dopo si rivolge alla donna che ama con la virile dolcezza di un poeta stilnovista.
Gregory Kunde, il Manrico de “Il Trovatore” in scena alla Fenice, molto atteso dopo le eccellenti interpretazioni dell’Otello verdiano e di Vasco da Gama ne “L’Africaine” di Meyerbeer, sa dire una parola importante anche in questo ruolo, incarnandolo con matura cognizione stilistica e alternando con sicurezza il canto eroico a quello lirico; e se poi quest’ultimo richiederebbe un timbro appena un po’ più fresco e giovanile, considerato che Manrico rappresenta un’evoluzione drammatica del tenore romantico donizettiano, pazienza, la perfezione non è di questo mondo; specie se si considera che Kunde, quando spinge la voce verso l’alto, è uno splendore, colma la sala di sole e di luce.
E poi, per dare ad ognuno il suo, l’illustre tenore non si tira indietro di fronte alla Pira, che esegue in tono con tutta l’esuberanza richiesta, incidendo le note in una lega di argento e acciaio e salendo all’empireo con due spettacolari puntature dal suono pieno e timbrato.
La Leonora di cotanto Manrico è il soprano USA Kristin Lewis, che dà vita ad un personaggio di squisito lirismo, trepido e appassionato, intenso e pudico assieme, che fa del legato e della varietà dinamica i punti di forza di un’interpretazione perfettibile nella coloratura ma capace di imporsi alla distanza per musicalità ed eleganza.
Il baritono polacco Artur Rucinski, che impressionò positivamente l’anno scorso come demoniaco Francesco Moor ne “I masnadieri”, alterna alcuni passi stentorei e trucibaldi, in cui appare un Conte di Luna convenzionale e monotono, con altri nei quali la componente fiera ed aggressiva, propria del nobiluomo capo di soldati, si arricchisce di una sfumatura disarmata, quasi indifesa, che ben si addice ad un giovane innamorato che si accorge di stare perdendo la donna che ama; è il caso dello studiato gioco dinamico esibito nell’aria “Il balen del suo sorriso”.
Nella Azucena di Veronica Simeoni, intensa, drammatica, fremente, ma mai una forzatura vocale, un accento enfatico, un atteggiamento volgare, si incontra una elevata civiltà artistica e vocale, che si traduce in pulizia ed omogeneità di emissione, impeccabile linea di canto, fraseggio eloquente.
Giovanile e perfino esuberante, quindi lontano dal consueto cliché del vecchio armigero memoria storica degli avvenimenti passati, il Ferrando del basso parmigiano Roberto Tagliavini, che comunque ha voce a la sa usare, il che è la cosa più importante. Al pieno della ricchezza e della compattezza sonora il coro del teatro diretto da Claudio Marino Moretti.
Sembra invece compiere un passo indietro rispetto a “I masnadieri”, nei quali aveva colpito per la capacità di rendere eloquente e ricco di evidenza musicale e quindi teatrale ogni passo dell’opera, il maestro Daniele Rustioni. Questa volta esagera in impeto e sonorità, non sottolineando abbastanza la componente notturna e lunare della partitura.
Lo spettacolo regge grazie alla suggestiva ambientazione scenografica ideata da William Orlandi: uno spazio vuoto illuminato da una colossale e incombente luna piena, ora algidamente bianca ora sinistramente insanguinata, e segnato da un elemento fortemente evocativo che varia scena dopo scena: un araldico cavallo bianco nel primo atto, un salice piangente per la monacazione mancata di Leonora, un ampio letto matrimoniale per lo sventurato imeneo della stessa Leonora e Manrico. Di tanto in tanto arde il fuoco, minaccioso e prorompente. Si crea così un’atmosfera onirica, straniante, che conferisce alla truce vicenda una connotazione non realistica, quasi da viaggio nell’inconscio.
Rimane l’ambientazione medievaleggiante (e non è una sorpresa sgradevole), grazie ai due arazzi – sipari che riproducono Castel del Monte e ai costumi, anch’essi dovuti a William Orlandi, belli ed evocativi, soprattutto i femminili: bianco virginale l’abito di Leonora, rosso come l’ossessione del fuoco che la divora quello di Azucena. Ma è un Medioevo immaginato, sognato come in un incubo, che, per citare il programma di sala, concentra “quanto di primitivo e irrazionale appartiene all’interiorità di ciascuno di noi”.
Non convince, invece, la regia di Lorenzo Mariani, che non riesce a trovare una cifra interpretativa appropriata per i personaggi e per il coro. I movimenti sono spesso stereotipati, convenzionali, come quel troppo frequente inginocchiarsi o sdraiarsi dei protagonisti sul palcoscenico, anche quando la situazione non lo richiederebbe. Sfiorano il ridicolo, poi, i gesti ritmati, di una banalità disarmante, di zingari e zingare sulla melodia “Chi del gitano”; e lo sgusciare furtivo in palcoscenico dei soldati del Conte affioranti al di sotto del sipario, a rappresentare l’assoluta segretezza che deve circondare il rapimento di Leonora.
La pomeridiana cui si riferiscono queste note ha riscosso un successo strepitoso, che ha accomunato in un abbraccio entusiasta interpreti, direttore, Verdi, “Il Trovatore”.
Adolfo Andrighetti
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