Kafka e Sciarrino conquistano il Teatro Malibran
Ed è da questo racconto che Salvatore Sciarrino ha ricavato la sua opera “La porta della legge”, in prima italiana al Teatro Malibran dopo l’esordio all’Opernhaus di Wuppertal nel 2009.
Vi si narra del confronto tra un uomo semplice, un campagnolo, ed un potere immane e senza volto, quello della legge. L’uomo semplice vorrebbe avvicinare la legge, conoscerla, capirla, ma l’ingresso nella porta gli è impedito da un guardiano, che è solo il primo di una serie di sorveglianti uno più terribile dell’altro. La porta rimane aperta ma nessuno può varcarla, a simboleggiare l’apparente accessibilità della legge, che permea la vita di ognuno come una presenza quotidiana, ma nello stesso tempo la sua reale, incolmabile distanza dall’uomo reale, che può solo subirla.
Il campagnolo rimane in attesa davanti alla porta, aperta ma inaccessibile, per il resto dei suoi giorni, ora supplicando il guardiano di lasciarlo entrare, ora cercando di corromperlo. Ma non c’è nulla da fare, l’ingresso gli è interdetto; non in via assoluta, gli viene spiegato, solo per il momento, perché è possibile che un giorno il permesso gli venga accordato: ancora una volta l’apparente accessibilità della legge, ostentata come specchietto per le allodole, cui corrisponde la sua effettiva, siderale lontananza. Il campagnolo, infatti, invecchierà davanti alla porta e morirà lì, nell’attesa di poter penetrare l’arcano, mentre il guardiano gli confida che ora l’ingresso sarà chiuso, perché era destinato soltanto a lui; un ultimo sberleffo, con cui il potere segna la sua completa vittoria su ogni uomo.
Di conseguenza, anche l’interpretazione che viene data del racconto da parte del sacerdote a Joseph K. nel penultimo capitolo de “Il processo” di Kafka appare speciosa come un abile sofisma. L’unico responsabile di questo indugio lungo una vita davanti alla porta della legge, afferma il cappellano della prigione, è l’uomo, che, pur essendo libero di varcare la soglia dietro la quale intravede la luce, interpreta l’atteggiamento del guardiano come un divieto assoluto. Ma, in realtà, questo è l’estremo inganno del potere: far credere all’uomo che l’obiettivo di capire il senso del reale è raggiungibile alle condizioni che il potere stesso pone, mentre non è così; il potere impedisce di fatto di raggiungere ciò che, per ottenere il consenso, promette.
“La porta della legge” è definita da Salvatore Sciarrino, autore non solo della musica ma anche del testo, “quasi un monologo circolare”, perché nelle tre scene vi si ripetono con alcune varianti le stesse situazioni come in un incubo angoscioso che si avvita su stesso e ci fa capire che il dramma rappresentato è universale e non offre vie d’uscita né nel tempo né nello spazio. L’usciere, come nell’opera è chiamato il guardiano ad accentuarne la connotazione burocratica, è sempre lo stesso, un basso. Cambia invece l’interprete dell’uomo: nella prima scena è basso-baritono, nella seconda controtenore, mentre nella terza è interpretato dai due cantanti insieme.
Secondo lo stesso compositore, inoltre, l’ispirazione gli è arrivata dal confronto-scontro di anni con la burocrazia italiana, ma è certo che la sua visione, così come quella di Kafka, non può essere limitata ad un caso storico specifico, per quanto gravoso per chi l’ha dovuto affrontare, ma assurge ad una universalità senza limiti geografici e cronologici, quale metafora di un rapporto mai risolto eppure dalla conclusione scontata: quello, appunto, fra l’uomo ordinario, semplice, inerme, e la macchina mostruosa del potere che lo stritola e lo fagocita.
Questa parabola senza tempo è stata messa in scena in un modo che è impossibile immaginare più appropriato, elegante e anche più efficace e persuasivo, in occasione della prima assoluta del 2009, grazie alla geniale regia di Johannes Weigand, perfettamente assecondata dalle scene e dai costumi di Jürgen Lier e dai video di Jakob Creutzburg. Ora questo esemplare allestimento è giunto sul palcoscenico del Teatro Malibran e non vi si nota una sbavatura, un calo di gusto, un errore; tutto è perfetto, registrato a puntino come in un meccanismo i cui ingranaggi si incastrano l’uno nell’altro senza provocare attrito.
Sul palcoscenico completamente nudo si stagliano le sagome dell’Usciere e dell’Uomo: il primo, inavvicinabile, protervo, dal gestire pesante sprezzantemente esibito; l’altro fragile, come ripiegato su se stesso, abbandonato ad una solitudine assoluta, un ampio cappello a nascondergli il viso quasi per non poterlo identificare con qualcuno in particolare ma con l’umanità intera degli oppressi e degli sconfitti.
Davanti a loro c’è la porta della legge: un rettangolo luminoso che si allarga sempre di più nella prima scena per poi restringersi nella seconda fino a chiudersi completamente, ultimo barlume di speranza che si estingue con lo spegnersi progressivo di quella luce che, nonostante l’arcigna sorveglianza dell’usciere, continuava pure a brillare oltre la fatidica porta.
E’ una regia, insomma, che coglie con sorprendente incisività il nucleo del lavoro di Sciarrino nel senso di straniamento e di gelo che promana dal confronto fra i due protagonisti, i quali non si incontrano mai sul piano umano ma si girano attorno e si guatano come monadi isolate e incomunicabili.
La partitura di Sciarrino rappresenta il commento più pertinente a questa atmosfera di onirica disumanità, stendendo un velo sonoro impalpabile eppure sottilmente minaccioso come il brontolio remoto di un temporale; un velo che periodicamente viene quasi strappato dall’inserimento dissonante dei singoli strumenti. Su questa superficie ora increspata con leggerezza ora scossa bruscamente si appoggia il declamato dei cantanti: nevroticamente incerto, quasi balbettante, quello di Uomo 1 e Uomo 2, brutale come un rabbioso abbaiare di cane quello dell’Usciere; un declamato che procede franto, a pezzi e bocconi, in un esprimersi primordiale, ridotto all’osso.
Il tutto è stato restituito come meglio non si sarebbe potuto dall’orchestra del Teatro guidata magistralmente da Tito Ceccherini, allievo prediletto del compositore. Inappuntabili per pertinenza scenica e vocale ai ruoli rispettivi i tre interpreti, tutti tedeschi: il basso-baritono Ekkehard Abele come Uomo 1, il basso Michael Tews come Usciere, il controtenore Roland Schneider come Uomo 2.
Il pubblico abbastanza numeroso ha applaudito con convinzione, a conferma che anche l’opera contemporanea può essere apprezzata e capita, soprattutto se il suo ascolto è accompagnato da un piccolo impegno previo di preparazione. A coronamento del successo ottenuto dal suo lavoro all’esordio in Italia è giunta per Salvatore Sciarrino anche l’assegnazione del premio “Una vita nella musica”.
Adolfo Andrighetti
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