Infiamma e commuove il Simon Boccanegra alla Fenice
Si tratta di un’acquisizione della maturità verdiana, che ormai rifiutava, in quanto monocordi, opere come “Nabucco” e “I due Foscari”, mentre cercava la varietà di temi e di tinte, come già sperimentato in “Rigoletto” e come si realizzerà soprattutto in “Un ballo in maschera”, non a caso il libretto scritto da Antonio Somma dopo l’accantonamento di “Re Lear”, e ne “La forza del destino”.
Può sorprendere questa conversione in chi, per ogni opera che componeva, cercava sempre la “tinta” dominante; un’atmosfera sonora, cioè, che la caratterizzasse e la distinguesse dalle altre. Ma Verdi avvertiva evidentemente l’esigenza di presentare al pubblico un universo musicale e drammatico multiforme come la vita, mescolando tragedia e commedia, serietà e ironia. Alla base di questo cambiamento c’era forse una sensibilità umana mutata, diventata meno rigida e in grado di accettare con maggior comprensione e con un sorriso distaccato le eterne contraddizioni dell’uomo; quello stesso sorriso che, sublimato dal declino della vita e sospeso fra serenità e amarezza, culminerà in Falstaff.
Ma l’arte, soprattutto la più alta come quella verdiana, si presta male ad essere incasellata in schemi. Infatti, pur essendo evidente nel Verdi successivo al 1853 la ricerca di variare i motivi ispiratori sul piano drammatico e quindi musicale, resta il fatto che la sua opera più scura e monocromatica, cioè “Simon Boccanegra”, fu rappresenta nel 1857, cioè quattro anni dopo la lettera a Somma cui si accenna in apertura.
E tale, cioè scura e monocromatica e straordinariamente affascinante, era destinata a rimanere anche dopo il rifacimento del 1881, con l’inserimento della formidabile scena del Consiglio alla fine del I atto. E per fortuna che è andata così, perché si tratta di un capolavoro assoluto, il cui colore di fondo è uniforme ma anche stupendo, quasi un marrone scuro screziato di rosso cupo e di ocra; una patina affascinante e corrusca, interrotta di tanto in tanto da qualche bagliore veemente che ne esalta anziché attenuarne la tinta di fondo.
La straordinaria partitura, umbratile, allusiva, raffinata come ben poche altre in Verdi, ha trovato uninterprete d’eccezione alla Fenice, per lo spettacolo d’apertura della stagione d’opera 2014-2015, nel maestro coreano Myung-Whun Chung. Questi trasmette una vitalità accesa e insieme limpida all’orditura strumentale, che raggiunge un’intensità ed un’eloquenza tali che l’orchestra, spinta al massimo delle sue possibilità da una guida di tale carisma, diventa un personaggio del dramma, forse il più importante: una voce universale e meta-umana capace di raccontare il fluire del dramma in ondate sonore che ora si sollevano tese ed impetuose, ora posano quiete e sussurranti, ma sempre scuotono, penetrano, avvolgono con la loro pienezza e nitidezza.
Insomma, è un’emozione continua, un brivido che dalla bocca dello stomaco sale fino agli occhi e si sfoga in una sana, grata commozione.
Certo poco potrebbe concludere anche un autentico demiurgo come il maestro coreano se non avesse a disposizione un cast di primissimo ordine e un coro, diretto da Claudio Marino Moretti, che si conferma sempre più bravo nel secondare le escursioni dinamiche dal sussurrato al fortissimo pretese da Verdi.
Simone Piazzola, baritono veronese di ventinove anni avviato ad un luminoso percorso artistico (il termine “carriera” suona banalmente riduttivo), sorprende per la maturità vocale con cui affronta e risolve l’impervio personaggio del corsaro divenuto doge.
Lo strumento morbido e duttile, il timbro bello e pastoso, la sicura impostazione tecnica di cui il legato è parte centrale, gli permettono di dare voce a tutte le intenzioni e le sfumature suggeritegli da un’interpretazione tanto concentrata quanto accuratamente preparata. Col tempo e con lo studio acquisirà anche quel carisma scenico che attualmente ancora non gli appartiene.
Gli fanno degno contorno le altre voci gravi, le vere protagoniste in un’opera così severa per i colori musicali e per lo svolgimento drammatico.
Nobile e partecipe il Fiesco di Giacomo Prestia, che la figura asciutta e slanciata nonché la barba e i capelli canuti, aiutano a costruire un personaggio autorevole non solo sul piano vocale ma anche su quello teatrale. Sorprendente per la dizione impeccabile, il fraseggio eloquente ed incisivo, la sensibilità per la parola scenica di verdiana memoria, il baritono coreano Julian Kim, capace di incidere il personaggio di Paolo con rara potenza drammatica. Corretto, misurato, ma un po’ sulla difensiva il Pietro del bravo basso vicentino Luca Dall’Amico.
Ma anche le voci acute fanno la loro. Maria Agresta è un soprano lirico schietto di squisita impostazione, che incarna un’Amelia riuscita e convincente nonostante qualche (saltuaria) discontinuità nell’emissione e qualche asprezza in acuto, forse dovute ad una serata non felicissima.
Il Gabriele Adorno di Francesco Meli custodisce in gola una miniera d’oro (o meglio d’argento, alludendo allo smalto privilegiato del suo timbro), dalla quale cava materiale prezioso ogni qual volta apre bocca, sostenuto dalla tecnica scaltrita e dai fiati ammirevoli, che gli permettono di sfumare, alleggerire e rinforzare a piacimento. Che poi il suo strumento, cui manca l’insolenza dello squillo in acuto, sia il più adatto ad affrontare e risolvere questo repertorio è altra questione, che, anche se non venisse chiarita in maniera del tutto positiva, nulla toglie alle qualità di questo ferratissimo artista e al valore della sua interpretazione nel “Simone” veneziano.
Di fronte a tanto splendore musicale, la messa in scena (regia e scene Andrea De Rosa, costumi Alessandro Lai, light e video design Pasquale Mari) per una volta fa da sostegno, da accompagnamento nella resa complessiva dello spettacolo; ma lo fa con assoluta dignità, senza raggiungere esiti memorabili ma anche senza sfigurare.
L’idea centrale è quella di presentare sullo sfondo, attraverso dei video ricchi di un fascino arcano ed evocativo, la visione di ampi orizzonti marini, a simboleggiare quella libertà di vita, di affetti, di sentimenti, cui Simone anela lungo tutto l’arco della sua esistenza avventurosa e tormentata. Ma il respiro purificatore del mare, così come il respiro di una vita serenamente aperta agli affetti, sembra precluso all’ex pirata, che ha accettato il potere per poi subirlo e restarne vittima.
E infatti Simone non può mai godere liberamente e con pienezza della visione del mare; fra lui e quell’orizzonte aperto e sconfinato si frappongono architetture imponenti che ne intercettano la luce e ne ostacolano la vista. Solo nell’ultimo atto, quando i diversi pannelli di cui si compone una sorta di paratia nera e metallica si aprono l’uno dopo l’altro, il mare si offre, accogliente e pacificatore, all’occhio di chi guarda; come se solo nella morte, cui Simone si consegna con nobile rassegnazione, si potesse incontrare quella infinita libertà di amore e pace che ognuno custodisce nel profondo del cuore.
All’interno di questa cornice non priva di fascino e comunque giustificata da una visione precisa e pertinente del significato dell’opera, i personaggi si muovono secondo una concezione registica dignitosamente convenzionale. E se si osa una scelta originale si cade in una forzatura, come quando la povera Maria prima viene esibita come cadavere rattratto al proscenio durante il prologo e poi ricompare come fantasma o visione nell’ultimo atto per accompagnare Simone nell’Aldilà.
Nell’insieme, però, lo spettacolo funziona (menzione speciale per l’impianto scenografico) e racconta con semplicità e chiarezza la complessa vicenda. Anche i costumi d’epoca, per quanto non tutti riuscitissimi (v. ad esempio quello di Gabriele Adorno), contribuiscono ad un esito generale di buon livello.
Alla serale cui si riferiscono queste note il pubblico, rapito e commosso, ha tributato un successo caldissimo e con i toni del trionfo ai direttori di orchestra e coro, a tutti gli interpreti e al coro stesso. Continua così, Fenice, e grazie per quello che riesci a realizzare e a donarci in questi tempi grami.
Adolfo Andrighetti
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