Alla Fenice, Bellini in salsa verdiana
Il tentativo di Bellini può considerarsi uno dei più riusciti, grazie in primo luogo a Felice Romani, forse il massimo poeta d’opera italiano dopo Metastasio, che, dimostrando un grande senso del teatro, appronta in tutta fretta un libretto di esemplare concisione, sfrondato di ogni episodio che possa rappresentare una divagazione o una dilazione rispetto all’avanzare ed al precipitare del dramma; un libretto che forse sarebbe piaciuto a Verdi proprio per la sua capacità di cogliere e sviluppare il nucleo infuocato della vicenda senza diluirlo con episodi secondari. Romani, infatti, nel ricavare la “poesia” per Bellini da quella che aveva scritto per l’opera “Giulietta e Romeo” di Nicola Vaccaj, ridusse gli 890 versi di quest’ultima a soli 585.
Un libretto che forse sarebbe piaciuto a Verdi, abbiamo scritto; e il forse è legittimo, quando si osservi che, nonostante il titolo scelto per l’opera, l’elemento storico e politico, con il conflitto fra i Capuleti Guelfi e i Montecchi Ghibellini e la presenza aleggiante di Ezzelino da Romano, fa soltanto da sfondo alla vicenda dei due ragazzi innamorati.
Ma se Verdi avrebbe di certo tratto maggior partito dal contesto storico all’interno del quale si snoda l’infelice storia d’amore di Romeo e Giulietta, non si può però negare che la scelta operata da Romani di concentrarsi proprio su quella storia con tutta la sua struggente carica emotiva, si riveli la più adatta a mettere in risalto le migliori caratteristiche della ispirazione belliniana.
Impegnato a cantare un amore tanto intenso e totalizzante quanto contrastato ed infelice, infatti, il catanese, quando non scivola o non si rifugia nella convenzionalità delle soluzioni di scuola e pur ricavando parte della musica dalla sua precedente “Zaira”, mette le ali alla propria poetica di squisito e struggente lirismo, trasfigurando i sentimenti umani in una dimensione sofferta eppure di una superiore, sublime armonia. E’ ciò che succede la maggior parte delle volte in cui compare in scena Giulietta, al cui sentimento così intriso di una femminilità assorta, quasi rassegnata, Bellini offre un canto di toccante e melodioso lirismo. Basti pensare, in proposito, a pagine come l’aria “Oh quante volte, oh quante” sugli accordi dell’arpa.
Di Romeo, invece, viene sottolineata soprattutto una certa qual virile ed esteriore baldanza; ma quando si trova con Giulietta, come nel duetto del primo atto e nell’epilogo sublime, allora l’alone di celestiale eppure trepida mestizia che accompagna la protagonista femminile si estende anche al suo partner e i due sono accomunati in un unico sentimento amoroso, appassionato e trasfigurato insieme; e qui, per citare Franco Abbiati, “Bellini è grande né più né meno che in Norma”.
Alla Fenice, nel nuovo allestimento coprodotto dal Teatro veneziano con la Fondazione Arena di Verona e l’Opera Nazionale Ellenica, Giulietta è Jessica Pratt, Romeo è Sonia Ganassi. La prima, soprano di Bristol cresciuta in Australia, è una bella ragazzona fin troppo florida e sana per il personaggio sofferto e macerato descritto da Bellini. Ma il canto è di alta scuola. La prima nota è una preziosa messa di voce (leggasi: attacco in pianissimo, rinforzando graduale, quindi diminuendo progressivo fino al pianissimo di partenza). Poi Jessica prosegue sempre ad alti livelli, adamantina nel timbro, incantevole per la pulizia dell’emissione e la correttezza dello stile, con la voce da soprano belcantista che corre a piacimento per il teatro e scintilla in acuti pieni e risonanti. Manca ancora qualcosa in un quadro così completo? Sì, uno scavo del personaggio più interiorizzato e sentito, in grado di emozionare.
Sotto quest’ultimo aspetto, invece, nulla manca a Romeo, cui Sonia Ganassi conferisce una tale varietà di colori ed incisività di accenti, un fraseggio così eloquente, una partecipazione interiore così intensa, da superare il diaframma della finzione teatrale e raggiungere quel livello ove verità artistica ed umana si uniscono e si confondono. Il mezzosoprano fa miracoli con uno strumento limitato per ampiezza e volume e le sue capacità interpretative, espresse senza mai forzare la correttezza della linea e dello stile, sono ammirevoli.
Il Tebaldo del tenore georgiano Shalva Mukeria, ormai di casa alla Fenice, è appropriato nell’esecuzione e mostra il consueto bel timbro angelicato; ma il personaggio risulta sempre un po’ anonimo e scialbo.
Ben assortita la coppia dei due bassi, Luca Dall’Amico come Lorenzo e Rubén Amoretti come Capellio; il primo più sofferto e sfumato nel canto, come si addice al personaggio, il secondo, per le stesse ragioni, imperioso e quasi aggressivo. L’impressione, però, è che Dall’Amico cerchi di ingraziarsi la tessitura della parte, un po’ alta per lui, con un’emissione a tratti alleggerita in modo artificioso, ma senza raggiungere esiti pienamente soddisfacenti.
Lo spettacolo, firmato da Arnaud Bernard per regia e scene, da Alessandro Camera ancora per le scene, da Carla Ricotti per i costumi, da Fabio Barettin per le luci, appare nel complesso irrisolto, privo di poesia e di ispirazione, sempre alla ricerca di un’identità che non riesce a trovare. L’ambientazione in un museo e lo sdoppiamento del piano narrativo fra la realtà, con operai e addetti vari che si muovono qua e là indaffarati, e la vicenda raccontata nell’opera, con i personaggi che d’improvviso prendono vita animati da violente e irriducibili passioni, è un dejà vu; ma, soprattutto, non è sufficiente a conferire all’allestimento un’anima o almeno una personalità.
Così, nonostante l’apprezzabile buona volontà dei coristi, infastidiscono quei Capuleti che, agitati fino alla frenesia, passano il tempo a spingersi, strattonarsi, urtarsi e a sghignazzare sguaiatamente. Anche al povero medico Lorenzo vengono continuamente messe le mani addosso, come fosse un famulo qualunque e non l’uomo di fiducia della famiglia. E’ giusta la preoccupazione di animare la presenza delle masse in palcoscenico, ma questa non sembra la strada giusta.
Anche ai solisti si cerca di infondere un surplus di vitalità, quasi dovessero compensare i lunghi periodi di immobilità trascorsi fra le cornici dei quadri appesi alle pareti del museo; ma gli esiti rimangono poco convincenti. Anche i due protagonisti non si muovono in maniera interessante e il loro interagire è reso poco credibile dalla differenza fisica, che vede Romeo perdente nei confronti della più alta e prestante Giulietta.
Né la scenografia, che fa vedere le ampie sale di un museo con quadri di varie fogge e dimensioni appesi alle pareti, né i costumi cinquecenteschi, non particolarmente belli, possono rilanciare un allestimento che non centra il bersaglio, perché rimane estraneo tanto alla poetica belliniana quanto al fascino simbolico della vicenda dei due adolescenti innamorati.
E a proposito di poetica belliniana, anche il maestro Omer Meir Welber ha qualcosa da farsi perdonare. La sua direzione, infatti, energica, serrata, incalzante, enfatizza il semplice e delicato strumentale di Bellini, con sonorità eccessive e un’intensità drammatica che presenta il catanese per quello che non è, cioè un anticipatore del primo Verdi. Va riconosciuto lo sforzo del giovane maestro israeliano di cambiare registro quando si tratta di accompagnare il celestiale cantabile belliniano nei suoi momenti di più squisito lirismo, ma anche in questi casi i risultati sono alterni. Alla fine dell’opera, a Omer Meir Welber non sono mancati i dissensi, seppure mescolati agli applausi. Successo pieno, invece, alla serale cui si riferiscono queste note, per tutti gli interpreti vocali e per l’eccellente coro del teatro, diretto da Claudio Marino Moretti.
Adolfo Andrighetti
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