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Al Malibran riprende vita lo sfortunato Bruschino rossiniano

02/02/2015
Al Malibran riprende vita lo sfortunato Bruschino rossinianoCorreva il 27 gennaio 1813 e al Teatro Giustiniani di San Moisè a Venezia il non ancora ventunenne Gioachino Rossini si apprestava a chiudere ingloriosamente, cioè con un clamoroso insuccesso, il ciclo di cinque farse commissionatogli dall’impresario Antonio Cera; un percorso che si era aperto positivamente con “La cambiale di matrimonio”, per poi proseguire con il trionfo de “L’inganno felice” (stranamente la meno farsa del ciclo) e l’esito lusinghiero ma assai meno clamoroso de “La scala di seta” e “L’occasione fa il ladro”, per chiudersi appunto con il fiasco, per dirla alla Verdi, de “Il signor Bruschino”.

Molto si è discusso sulle ragioni del tonfo, tanto più clamoroso in quanto i due buffi scritturati dal San Moisè, Nicola de Grecis e Luigi Raffanelli, erano dei beniamini del pubblico e godevano di vasta fama. All’epoca furono avanzate anche delle ipotesi romanzesche che non è il caso di riportare neppure per sommi capi perché ormai giudicate prive di ogni fondamento. Certo è che Rossini aveva ormai esaurito l’epoca del suo apprendistato al San Moisè attraverso la forma breve e disimpegnata della farsa, e il 6 febbraio 1813, quindi pochi giorni dopo lo sfortunato esordio de “Il signor Bruschino”, avrebbe portato sul ben più prestigioso palcoscenico della Fenice un’opera seria del livello di “Tancredi”. E pochi mesi dopo, cioè il 22 maggio, al teatro di San Benedetto avrebbe conquistato il primato assoluto del comico in musica, allora e per sempre, con quel capolavoro che è “L’italiana in Algeri”.

Può essere allora che al povero Bruschino, stretto fra due opere di ben altro livello, Rossini non abbia dedicato tutte le cure necessarie per farlo decollare? Chi può dirlo. Fatto sta che la critica ha ormai restituito la dignità perduta alla sfortunata quinta farsa rossiniana, in virtù della consueta vorticosa carica di energia, di alcune felici soluzioni armoniche e strumentali e dell’accentuato lirismo in chiave preromantica dei ruoli affidati ai due amorosi.

Il peggio, in realtà, è rappresentato dalla trama, che il librettista del San Moisè, Giuseppe Foppa, trasse dalla commedia francese “Le fils par hazard ou Ruse et folie” del 1809; una vicenda claudicante come un tavolino zoppo, del tutto inattendibile anche per le disinvolte abitudini allora in voga nei teatri ove si davano le farse. Intanto di Bruschini nella sgangherata vicenda ne compaiono tre: il padre, buffo di ruolo, la cui caratterizzazione è colorita dalla gotta che lo affligge e dal tormentone “Uh, che caldo!”; il figlio dissipato, che compare solo nel finale ripetendo in chiave comica l’ultima sillaba della sua battuta (“Son pentito, tito, tito”); e l’impostore Florville, tenore, che si spaccia per il figlio (anche con Bruschino padre!) per poter impalmare l’amata Sofia nonostante l’opposizione del tutore della ragazza, l’altro buffo Gaudenzio. Insomma, un pasticcio indigeribile, “una macchinata primitiva e dimessa, sfacciata e grottesca”, come la definì il musicista bergamasco Arrigo Gazzaniga, curatore dell’edizione critica dell’opera.

Al Teatro Malibran, nell’ambito dell’apprezzabile progetto di realizzazione delle cinque farse composte per il san Moisè da Rossini, “Il signor Bruschino” è stato messo in scena in modo globalmente felice. La regia di Bepi Morassi fa dello spettacolo un campionario esauriente di tutte le trovate tipiche di questo repertorio (mossette a tempo sia individuali sia di gruppo, Bruschino padre che fa capolino da un palco di proscenio, Gaudenzio che entra passando dalla platea, fuochi d’artificio e chi più ne ha più ne metta). Ma la mano è sempre garbata e lieve, non si esagera, non si va giù pesante forzando l’effetto farsesco. Soprattutto, lo spettacolo mantiene sempre il giusto ritmo, senza momenti di stanca e senza mai smarrire brio e vivacità.

Solo la trovata del plastico collocato in un angolo del proscenio a riprodurre la scena con i suoi protagonisti è apparsa superflua, ma se non aggiunge nulla alla simpatica confezione dello spettacolo, nulla neppure le toglie, quindi poco male.

La regia è servita a puntino dalla Scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia (grazie a tutti per questa collaborazione che costruisce il futuro lavorando nel presente), che realizza delle scene deliziosamente naïve, come ritagliate nel compensato da un ragazzo durante l’ora di applicazioni tecniche quando ancora era prevista dai programmi scolastici. Sono delle sagome che disegnano il giardino di una dimora pretenziosa: la siepe tutta attorno, sulla sinistra il gazebo, sulla destra una panchina con il lampione, al centro la casa, che si slancia verso l’alto come una piccola torre.

In un contesto di questo tipo funzionano alla perfezione anche i costumi, divertenti e colorati, senza tempo come nelle favole.

La realizzazione musicale si avvale della intelligente, elegante e misurata direzione del maestro Francesco Ommassini, attento soprattutto a restituire le tinte pastellate dei momenti sentimentali dell’opera e a condurre come si deve il palcoscenico. Spiritoso e garbatamente canzonatorio l’accompagnamento al fortepiano di Roberta Ferrari.

Il cast funzionale ha il suo vertice nel soprano siberiano Irina Dubrovskaya; e, se può passare l’ingenuità, meraviglia che da quelle terre, che immaginiamo quasi immote e silenti sotto una coltre di gelo, escano artiste così spiritose e con una voce che sembra baciata da un sole mediterraneo. Irina, in effetti, esibisce uno strumento sanissimo, smaltato e squillante, cui difetta soltanto una maggiore varietà nel gioco dinamico. L’attrice, poi, è smaliziata e sa dare vita ad una finta ingenua così credibile e piccante da dare punti alla “semplicetta” Norina in Don Pasquale.

Il Gaudenzio di Omar Montanari si mantiene sempre su quell’alto livello professionale cui questo artista così consapevole e preparato ci ha abituato. Grazie alle sue doti onora con classe un ruolo vocalmente impervio, ricco di impegnative agilità, e ne esce con merito.

Gustosa la caratterizzazione di Bruschino padre offerta da Filippo Fontana, che, con l’aiuto della regia e del trucco, ne rende con efficacia la personalità valetudinaria (per dirla con Dulcamara) e brontolona, un misantropo perennemente infastidito dal prossimo che gli si agita attorno. Ma la sua vocalità baritonale forse non é la più adatta ad interpretare un ruolo da basso parlante come quello affidatogli.

Gradevole, puntuale e disinvolto il giusto, sia nella cavatina “Deh tu m’assisti amore” sia nel duetto successivo con Sofia e negli altri interventi, il Florville del tenore argentino Francisco Brito. Più che corretti il Bruschino figlio e il Delegato del tenore spagnolo David Ferri Durà e il Filiberto di Claudio Levantino. Come sempre simpatica, briosa e vocalmente adeguata la caratterizzazione di Giovanna Donadini, qui nei panni della cameriera Marianna.

Alla matinée cui si riferiscono queste note, successo cordiale per tutti.

Adolfo Andrighetti

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