Fenice: che bello questo Don Pasquale anni trenta!
Il vecchiotto è Don Pasquale, che aggiorna, con un carattere più completo e complesso, lo stereotipo della tradizione. E’ un possidente di Corneto semplice ma non stupido, cui viene voglia di ammogliarsi per ripicca verso il nipote Ernesto che vive con lui e dà eccessivi segnali di autonomia, non intendendo sposarsi con la ragazza propostagli dallo zio. Il matrimonio di quest’ultimo - ecco lo scenario della famiglia borghese di primo ottocento che si apre - farebbe perdere casa ed eredità ad Ernesto.
Ma Don Pasquale non è una marionetta della commedia dell’arte; la sua attrazione per Norina - la ragazza che gli faranno sposare per finta con l’obiettivo di dissuaderlo dall’idea di contrarre un matrimonio vero - è sincera e suscita tenerezza, così come commuove la reazione attonita e rassegnata allo schiaffo che gli misura la stessa Norina proprio il giorno delle nozze.
Quest’ultima, poi, si rifà al personaggio tradizionale della vedovella giovane e scaltra, ma ne sottolinea la spregiudicatezza, l’uso di mondo e la presa erotica sul povero Don Pasquale. Inoltre, la figura del servo astuto e maneggione, pronto ad appoggiare gli intrighi orditi a danno del vecchiotto in fregola, diventa, con un salto di qualità sociale e con una patina di perbenismo ma con le medesime caratteristiche umane, il medico di famiglia, cioè il Dottor Malatesta.
La disinvoltura un po’ canagliesca di Norina e Malatesta, la loro abilità nell’ordire e attuare la trappola in cui deve cadere il vecchio, mettono in risalto per contrasto il carattere sognatore e velleitario di Ernesto, di cui viene evidenziata anche dalla musica la vena sospirosa e nostalgica, mentre assiste come testimone tutto sommato passivo allo scherzo crudele macchinato dagli altri due.
Questi personaggi, ricchi di un’umanità tutt’altro che convenzionale, danno vita ad una commedia perfetta, sempre in ideale equilibrio fra dolcezza e amarezza, fra umorismo e sentimento; una commedia che canta con un sorriso venato di mestizia la malinconia del crepuscolo della vita cinquant’anni prima del “Falstaff” verdiano. Merito anche del romanziere esule Giovanni Ruffini, che trasse il libretto da quello del “Ser Marcantonio”, scritto da Angelo Anelli e musicato da Stefano Pavesi e che poi ripudiò il proprio lavoro, nonostante non fosse certo da buttar via, perché troppo condizionato dalle pretese del compositore. Ma merito, soprattutto, della felicissima vena di Donizetti, di impareggiabile arguzia nelle pagine brillanti e di squisita poesia in quelle sentimentali, mai forzata nella ricerca dell’effetto ma sempre di straordinaria freschezza, limpidezza, eccellenza di fattura.
La modernità del “Don Pasquale” rispetto alla produzione comica che lo precede, ivi compreso “L’elisir d’amore”, modernità dovuta ad un realismo da commedia borghese fino ad allora sconosciuto, trova pieno risalto nel brillantissimo e ormai storico allestimento firmato da Italo Nunziata per la regia, Pasquale Grossi per le scene e i costumi, James Patrick Latronica per luci; uno spettacolo che, dopo aver debuttato al Malibran nel 2002 mentre la Fenice era in ricostruzione, ha poi peregrinato – segno questo di indiscutibile successo - in molti teatri italiani ed europei, fino ad approdare, nel corso di questa stagione operistica, sul massimo palcoscenico veneziano.
Nunziata ambienta la vicenda negli anni trenta del secolo scorso, valorizzando il nesso di atmosfere e di sensibilità esistente fra le vicende dell’opera e quelle raccontate nei film dei telefoni bianchi, attraverso uno spettacolo ove la freschezza, il brio e l’humor sottile si sposano ad un garbo e ad un senso della misura che sono merce ormai rara e quindi tanto più preziosa nel teatro musicale odierno.
Don Pasquale, da possidente come lo vuole il libretto, diventa il titolare di una fabbrica di tessuti, la premiata “Manifattura da Corneto”, come si legge nell’insegna; l’industrialotto è burbero e un po’ dispotico verso dipendenti e domestici, come da inevitabile copione per un uomo “sui settanta” che crede così di farsi rispettare, ma in realtà è un ingenuo pronto a farsi scavalcare dalle nuove generazioni rampanti, come puntualmente accade. Norina è una sua impiegata, una dattilografa svogliata come le altre e come le altre alla ricerca dell’anima gemella; ma mentre le colleghe si limitano a sognare il grande amore immerse nella lettura delle riviste per signorine, la più spregiudicata Norinasi è già accaparrata Ernesto, anch’egli dipendente della manifattura, ma, ciò che più conta, nipote del proprietario. Ora si tratta di farsi sposare con il consenso del vecchio, in modo da poter beneficiare della sua cospicua fortuna. Solo Malatesta rimane estraneo al contesto aziendale, restando quel medico disinvolto e furbastro descritto nell’opera.
Alla piena riuscita teatrale di questo spostamento d’epoca contribuiscono in totale sintonia: il lavoro registico sui singoli interpreti e sulle masse, condotti per mano gli uni e le altre in un gioco divertente e divertito che restituisce con semplicità ma anche con deliziosa finezza il profumo di un’epoca; le scene perfette, a mostrare con simpatica ironia prima gli austeri uffici della manifattura e poi la casa di Don Pasquale: severa e un po’ cupa, questa, quindi “ravvivata” dagli aggiustamenti in stile art déco voluti da Norina; i costumi anni trenta, infine, belli, divertenti ed assolutamente appropriati. Se proprio si vuole cercare il pelo nell’uovo, le proiezioni di brani di film d’epoca sono apparse anche questa vola non sgradevoli ma superflue: una specificazione sovrabbondante e quindi inutile in uno spettacolo di ammirevole equilibrio e misura.
Sul podio, il maestro israeliano Omer Meir Welber, in predicato di sostituire come direttore musicale della Fenice Diego Matheuz prossimo alla scadenza del contratto, ha mostrato una bella sintonia con il suadente fraseggio orchestrale donizettiano, interpretando con sensibilità e senso della misura i passi “di conversazione” come quelli schiettamente melodici della partitura. Qualche sparso eccesso sonoro, cercato probabilmente per conferire vivacità ed energia in alcuni momenti come i finali d’atto, potrebbe essere evitato, ma non disturba nell’economia di un’esecuzione globalmente di alto livello. E sull’alto livello, sia nel canto sia nella apprezzabile attitudine attoriale, si mantiene ormai da tempo anche il coro del teatro, diretto da Claudio Marino Moretti.
Per passare al cast, c’era molta attesa per vedere come Roberto Scandiuzzi, artista dalla lunga e prestigiosa carriera spesa onorando i ruoli seri tipici della sua corda, avrebbe risolto un personaggio brillante come quello di Don Pasquale. Certo, il glorioso basso trevigiano non può improvvisare di punto in bianco quel colore più chiaro della voce che non ha mai posseduto né alleggerire un’emissione naturale che risulta un po’ greve per il ruolo. Ma l’artista, con l’esperienza, la classe e la padronanza del canto che lo contraddistinguono, esce dall’impresa vittorioso e giustamente acclamato, impersonando un protagonista forse meno “divertente” nel senso tradizionale del termine rispetto alla prassi esecutiva corrente, ma certo uomo e non macchietta, persona e non stereotipo. E’ anzi il caso di sottolineare l’intelligenza dell’interpretazione di Scandiuzzi, che trae partito con maestria dalla sua voce “grande” da basso drammatico per donarci un protagonista diverso, più autentico nella sua disarmata umanità. Così, risulta veramente toccante il momento successivo allo schiaffo assestatogli da Norina, quando Scandiuzzi riduce ad un sussurro morbido e pieno di pathos la sonorità imponente del suo strumento restituendo alla frase “E’ finita Don Pasquale, più non romperti la testa, il partito che ti resta è d’andarti ad affogar” tutta la dolente intensità che le appartiene: è proprio l’addio alla vita di un vecchio stanco e disilluso.
Il baritono Davide Luciano, che è Malatesta, non può contare su di uno strumento privilegiato per timbro, rotondità e pastosità, ma quello che la natura gli ha concesso lo usa proprio bene, con musicalità, piena padronanza della tecnica e quel gusto per il fraseggio spigliato ed espressivo che crea il personaggio. Inoltre, sulla scena è interprete misurato ma disinvolto. Ne esce un Dottore come deve essere, sicuro di sé e con un pizzico di canagliesca spregiudicatezza.
Anche la Norina del soprano Barbara Bargnesi è come deve essere: sicura del suo appeal femminile, opportunista nata e, per i costumi d’antan, alquanto disinibita; insomma, una sorta di alter ego del Dottore, con il quale forse finirà per cucinare una liaison alle spalle dello stranito Ernesto, troppo imbranato per piacerle veramente. La voce è quella tipica del soprano di agilità consegnato a questi ruoli brillanti: gradevole nel timbro, leggera nel volume, sciolta nelle agilità, squillante in acuto.
Un po’ più problematico l’Ernesto del tenore Alessandro Scotto di Luzio, che sfoggia un bel timbro e porge in modo stilisticamente adeguato, ma deve costruirsi una mezza voce (v. in particolare il duetto con Norina “Tornami a dir che m’ami”) ed assestare l’impostazione quando sale.
In conclusione, una nota di merito per il Notaro del basso Matteo Ferrara e la segnalazione cronachistica del caldo successo, alla serale cui si riferiscono queste note, tributato a tutti gli interpreti e al direttore d’orchestra.
Adolfo Andrighetti
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