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Alla Fenice si celebra il Neoclassicismo di Gluck

24/03/2015
Alla Fenice si celebra il Neoclassicismo di Gluck“Alceste”, rappresentata per la prima volta nel 1767 al Burgtheater di Vienna in lingua italiana, è nota come l’esempio più coerente di quella riforma del melodramma che il compositore, Christoph Willibald Gluck, voleva sviluppare d’intesa con l’autore del libretto, il livornese e suo coetaneo (per entrambi l’anno di nascita è il 1714) Ranieri de’ Calzabigi.

Che “Alceste” sia una sorta di manifesto di quella tendenza che mirava a depurare il melodramma italiano dalle esagerazioni che ne avevano fatto una palestra per il virtuosismo narcisista dei cantanti e soprattutto dei castrati, al quale soggiaceva ogni esigenza musicale e drammatica, è indubbio.

Lo è prima di tutto per la prefazione del compositore (ma l’influenza decisiva di Calzabigi si dà per scontata) apposta alla prima edizione a stampa della partitura, in cui sono elencati con chiarezza programmatica i punti di riferimento della riforma: freno agli abusi autocompiaciuti dei cantanti, da considerarsi degli esecutori e non dei coautori, quindi drastico ridimensionamento delle improvvisazioni, delle variazioni, degli abbellimenti, ed eliminazione, nelle arie, dei “da capo”, che davano ai virtuosi l’occasione per scatenare ogni genere di fuochi d’artificio vocali interrompendo l’azione e quindi raffreddandone il pathos. Inoltre, valorizzazione del coro, nell’opera italiana praticamente estinto per non dare ombra ai solisti, e nobilitazione del recitativo, che da “secco” e quindi da mero anello di congiunzione fra un pezzo chiuso e l’altro, diventava “accompagnato”, quindi con una presenza musicale ed un ruolo drammatico ben più significativi, nel tentativo di non contrapporlo all’aria ma di dare vita ad un flusso musicale unitario.

Alla base c’era la volontà di restituire il melodramma, ormai ridotto ad una serie di pezzi chiusi slegati da un contesto coerente, alla verità drammatica racchiusa nella vicenda e nei sentimenti dei personaggi; vicenda e sentimenti che dovevano tornare in primo piano attraverso versi più incisivi e asciutti di quanto l’accademismo di Metastasio avesse ormai abituato e rispetto ai quali la musica doveva avere una funzione quasi maieutica, cioè diretta a metterne in risalto il contenuto di emozioni e di sentimenti.

Questa visione teorica, che per certi aspetti rappresenta un recupero delle ragioni del “recitar cantando” monteverdiano con la musica che accompagna e sostiene e valorizza l’esposizione intonata della poesia, trova una realizzazione nel complesso coerente appunto in “Alceste”. Soprattutto nella sua prima versione, infatti, quella in lingua italiana, che viene giustamente proposta alla Fenice, è detta una parola veramente nuova, con il tentativo (realizzato solo in parte) di superare la contrapposizione fra recitativi e arie e i primi, ovviamente accompagnati, che si increspano di venature melodiche, mentre le seconde perdono il loro schematismo assecondando le ragioni del dramma (Ildebrando Pizzetti); con la restituzione di un ruolo chiave all’orchestra e al coro; con una scrittura vocale di nobile compostezza diretta a sottolineare l’elevatezza dei sentimenti coinvolti nella vicenda, tratta da Euripide, e non a fornire pretesti all’esibizionismo dei cantanti.

Solo è importante tenere presente che Gluck e Calzabigi non sono delle voci che gridano nel deserto, ma coloro che seppero concretizzare, dandogli veste musicale e teatrale, un lungo ed articolato processo evolutivo, come tale non adeguatamente sintetizzabile in questa sede, che si era sviluppato attraverso la contrapposizione polemica fra il melodismo delle opere serie italiane e la più austera tragédie lirique francese, fino a reagire alle esagerazioni dell’una (il virtuosismo canoro fine a se stesso) ma anche dell’altra (l’enfatica magniloquenza, riscontrabile anche in Rameau). La diatriba, cui parteciparono i più accreditati intellettuali dell’Europa illuminista, trovò un punto e a capo nelle opere di Gluck e Calzabigi; i due, soprattutto in “Alceste”, finirono per sposare nel complesso la concezione francese di un melodramma che esaltasse appunto il dramma e non l’esibizionismo dei cantanti.

Alla Fenice, “Alceste” è stata presentata in un nuovo allestimento firmato da Pierluigi Pizzi. La scena mostra un pavimento a grandi riquadri bianchi e neri che conduce ad una breve scalinata bianca. Questa, procedendo verso il fondo del palcoscenico, porta ad un’architettura geometrica tripartita, fortemente stilizzata secondo un gusto neoclassico iper-razionale, di una eleganza un po’ algida. I tre vasti ambienti sono praticabili e ospitano, nel corso dell’opera, prima una grande statua di Apollo, quando l’azione si finge nel tempio del dio; poi alcuni alberi di un argenteo biancore tombale nella selva sacra agli dei inferi; infine il letto nuziale di Alceste e Admeto. Il talamo accoglie prima il re moribondo, in seguito il corpo della sua sposa che ha offerto la propria vita per salvarlo, quindi il festoso abbraccio della coppia e dei due figli finalmente riuniti nel lieto fine.

Questo è il contesto scenografico, totalmente e indiscutibilmente suo, in cui Pizzi ambienta “Alceste”. I personaggi ed il coro, a loro volta, completano la precisa simmetria che domina il palcoscenico, disponendosi ai due lati in gruppi ordinati, quasi a creare l’effetto di un articolato complesso scultoreo che chiude l’architettura situata sul fondo. L’insieme dà l’impressione di uno spazio sacro, al cui interno si officia un rito collettivo: quello che accompagna il sacrificio che una donna e regina, Alceste, fa di sé al dio Apollo per salvare la vita dell’amato sposo gravemente ammalato; un sacrificio che la benevolenza del nume, pronto a restituire la coppia sublime all’esistenza terrena e agli affetti, rende inutile ma non priva del suo valore esemplare.

L’atmosfera da sacra rappresentazione è accentuata dalla consueta monocromia cara a Pizzi, in quanto la messa in scena è tutta giocata sul contrasto fra il bianco ed il nero, con l’unica eccezione delle cortine dorate che coronano il letto nuziale di Alceste e Admeto. Ma l’oro, accostato al bianco e al nero, ne accentua l’effetto liturgico anziché contraddirlo.

Sulla stessa linea sacrale anche i costumi, peraltro molto belli: tuniche bianche o avorio lunghe fino ai piedi per tutti, con la comparsa del nero per Alceste e Ismene quando l’evolversi della vicenda verso la tragedia esige il lutto. E simbolicamente neri sono anche le vesti che avvolgono i numi infernali a coprirne il corpo e il volto. Insomma, si potrebbe parlare di paramenti sacri più che di costumi, nel mentre si officia il rito del sacrificio d’amore che, attraverso la morte liberamente accolta, porta alla vita.

Né va trascurato che anche il Pizzi regista dà il suo meglio in questa occasione, riuscendo a dare vita alle masse corali attraverso dei movimenti certo composti e quasi rituali, di tipo oratoriale, ma eloquenti ed espressivi. Altrettando deve dirsi per i solisti, che non danno mai l’impressione di essere abbandonati a se stessi, ma si muovono e agiscono secondo un disegno preciso.

Nell’insieme si assiste ad uno spettacolo di fascino indubbio e di sottile suggestione, che fa sintesi della migliore cifra artistica del Pizzi neoclassico, amante degli spazi definiti in modo lineare e simmetrico, secondo un principio di chiarezza e razionalità di matrice illuministica. In questo caso l’ispirazione del raffinato regista e scenografo, ospite consueto alla Fenice per una serie ormai lunga di prestigiosi allestimenti, risulta particolarmente felice, per la pertinenza dell’allestimento alle atmosfere paludate, cristallizzate in un’eleganza marmorea anche nei momenti di maggiore passionalità, evocate dalla musica.

E a proposito di musica, diremo della eccellente esecuzione cui dà vita il maestro Guillaume Tourniaire, assecondato da un’orchestra concentrata e convinta, e da un coro, istruito come sempre da Claudio Marino Moretti, in stato di grazia, capace di assecondare ai più alti livelli le esigenza di un’opera che lo vede quasi sempre in scena, impegnato sul piano vocale ed attoriale come testimone attento e partecipe di tutta la vicenda, secondo il modello della tragedia greca. Tourniaire riesce ad insufflare vitalità e movimento ad una partitura che offre momenti di autentica, sublime bellezza, ma potrebbe presentarsi, se il maestro concertatore e direttore non è veramente abile e in questo caso lo è, come un monumento di nobile, armoniosa ma statica concezione, tendente a riproporre sempre la stessa elevata e grandiosa cifra stilistica. Il maestro evita il rischio della celebrazione foriera di una nobile monotonia, puntando su tempi sostenuti, sui contrasti dinamici e non lasciando mai che la tensione drammatica ed emotiva si allenti, pur mantenendo un mirabile equilibrio con la compostezza e l’eleganza apollinee della musica.

E’ impervio il ruolo della protagonista, donna e regina che attraversa tutti gli stati d’animo possibili, dalla disperazione alla piena felicità, passando attraverso l’amore materno e quello coniugale sublimato nel supremo sacrifico di sé. Un personaggio di questa caratura dovrebbe essere affidato ad una grande tragedienne; ad una Giuditta Pasta o ad una Callas redivive, per esempio, capaci di riempire di senso e di espressività ogni frase, di incidere nel marmo ogni parola con la forza dell’accento e di incendiare il palcoscenico con l’energia del loro carisma. Carmela Remigio non avrà l’artiglio della leonessa, ma certo possiede una civiltà artistica superiore, che le permette di affrontare e risolvere questo ruolo, assai impegnativo sul piano drammatico prima ancora che su quello vocale, con assoluta credibilità, dando vita ad una performance di classe pura. Con grande intelligenza valorizza il suo strumento lirico per evidenziare, nel personaggio, la donna piuttosto che l’eroina, conferendo all’Alceste moglie e madre non solo i colori e gli accenti del coraggio indomito, ma prima ancora quelli della più trepida e femminile sensibilità.

Le è accanto l’Admeto del tenore Marlin Miller. Questi dà tutto se stesso in un ruolo che mette a dura prova la sua delicata vocalità da lirico-leggero, perché imperniato su di una continua declamazione di forte intensità drammatica che si aggira spesso e volentieri nella zona di passaggio. L’artista, che è bravo e preparato, getta il cuore oltre l’ostacolo e realizza, nonostante qualche momento di stanchezza, un personaggio pieno di vita e di passione.

Fra i comprimari, di gran classe vocale e scenica l’Ismene del soprano Zuzana Markovà e stilisticamente puntuale l’Evandro del tenore Giorgio Misseri. Funzionali le voci gravi di Armando Gabba e Vincenzo Nizzardo. Appropriati gli interventi di Eeumelo e Aspasia, i figli di Alceste, due voci bianche tratte dai Piccoli Cantori Veneziani diretti da Diana D’Alessio.

Alla domenicale cui si riferiscono queste note un teatro al completo (e per un’opera tutt’altro che di repertorio, buon segno!) ha tributato un successo vibrante a tutti ed in particolare a Pier Luigi Pizzi, che ha assistito allo spettacolo in un palco di proscenio, dal quale si è affacciato alla fine per rispondere sorridente agli applausi affettuosi ed ai “bravo” di acclamazione.

Adolfo Andrighetti

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