Alla Fenice Vivaldi canta la vicenda di Giuditta e Oloferne
Per quanto riguarda le arti figurative, il contrasto fra la bellezza della donna e la violenza dell’atto da lei compiuto, straordinariamente coraggioso e indispensabile per la salvezza generale ma in sé atroce, esprime una potenza rappresentativa colta, fra gli altri, da Caravaggio, Giorgione, Artemia Gentileschi, Gustav Klimt e, nella scultura, da Donatello.
Nel quadro di Caravaggio, in particolare, che la Fenice ha scelto per accompagnare nel proprio sito web la proposta vivaldiana, Giuditta è rappresentata in un atteggiamento realistico di ripugnanza nei confronti dell’atto che sta compiendo, dal quale sembra ritrarsi anche fisicamente e che pure si impone di portare a termine. La sua bellezza, sana e fresca, contrasta vivacemente sia con la postura di Oloferne, gli arti superiori e il busto in tensione, la bocca spalancata e gli occhi rivolti in alto in un ultimo spasimo di agonia, sia con lo straordinario ritratto della vecchia ingiallita, rugosa e sdentata, in primo piano. Questa è vividamente dipinta in un atteggiamento domestico e quotidiano di disponibilità all’aiuto, a fare quanto il dovere di una buona donna di casa o di una fantesca impone, fedele alle proprie abitudini anche in una circostanza così tragica.
Altrettanto, se non ancora più abbondante, la produzione musicale ispirata all’episodio biblico specie nel periodo barocco, con lavori, tanto per fare alcuni nomi, di Carissimi, Lotti, Marcello, Galuppi, Cimarosa, Scarlatti. Nella seconda metà del Settecento si cimenta con Giuditta Pietro Metastasio, il cui libretto è musicato anche da Mozart, Jommelli, Anfossi. E non è ancora finita: nell’Ottocento ci sono Gazzaniga e Meyerbeer, nel novecento Honegger.
“Juditha triumphans”, la composizione di Antonio Vivaldi in scena alla Fenice, fu rappresentata nel 1716 all’Ospedale della Pietà, con cui il musicista collaborava; una delle quattro istituzioni presenti a Venezia dedicate al mantenimento e all’educazione di orfani e bambini abbandonati, in un passato al quale guardiamo spesso con sufficienza e che invece offriva esempi significativi di umanesimo cristiano e di amore per la cultura. Strumento privilegiato per la formazione di queste creature sfortunate era la musica, insegnata e praticata ad un livello così alto da permettere l’esecuzione vocale e strumentale, da parte delle assistite dell’Ospedale della Pietà che era esclusivamente femminile, di una composizione complessa come questa di Vivaldi.
Il lavoro è un “Sacrum militare oratorium”, come lo definisce il libretto in latino di Giacomo Cassetti, scelto per la possibilità che l’episodio di Giuditta offriva ad una celebrazione patriottica della Repubblica di Venezia, all’epoca impegnata in una guerra contro i Turchi. Infatti, nel finale il sommo sacerdote ebreo Ozias paragona la città di Betulia, finalmente liberata dal nemico, a Venezia (“Veneti Maris Urbis”), che profetizza invincibile per immutabile volontà divina (“decreto aeterno”). Gli fa eco il Coro successivo, che invoca il trionfo di Venezia, “Maris Regina”, e augura alla città di Adria di vivere e regnare in pace.
“Juditha triumphans” è l’unico dei quattro oratori sacri composti da Vivaldi di cui sia nota la partitura; ma il suo valore va al di là di questa considerazione di natura eminentemente musicologica e va ritrovato nella felicità inventiva delle arie e nella originalità di una strumentazione studiata con un’attenzione inusitata per gli effetti timbrici e coloristici.
La “Juditha triumphans” è stata messa in scena in un nuovo allestimento dalla Fondazione Teatro La Fenice nell’ambito del festival «Lo spirito della musica di Venezia» 2015. Il maestro Alessandro De Marchi, insieme all’Orchestra del Teatro, propone una concezione vitale e vigorosa delle precise geometrie musicali di Vivaldi, che restituisce con un suono pieno e corposo, pronto ad ammorbidirsi nei passi sentimentali e patetici pur mantenendo la rotondità.
In palcoscenico brilla, per la spettacolare partecipazione teatrale e il consueto ottimo rendimento vocale, il coro femminile del Teatro diretto da Claudio Marino Moretti, accanto ad un cast nel complesso omogeneo, stilisticamente avveduto e tecnicamente preparato.
Fra i personaggi emerge Vagaus, lo scudiero di Holofernes, cui il mezzosoprano Paola Gardina conferisce la giusta irruenza e accenti incisivi, sostenuti da un’eccellente padronanza delle vorticose agilità di forza che la parte richiede. Ma hanno assolto con bravura i loro ruoli anche il mezzosoprano Teresa Iervolino, Holofernes sicuro sul piano vocale e convincente nella gestualità mascolina, il soprano Giulia Semenzato, che è Abra, l’ancella di Judith, cui conferisce un canto morbido, dolce e femminile del tutto confacente alla parte, il contralto Francesca Ascioti, autorevole Ozias, il sommo sacerdote. Qualche perplessità, invece - e spiace dirlo conoscendo e apprezzando la bravura dell’artista – suscita la più esperta del giovane cast, cioè il mezzosoprano Manuela Custer, che disegna una Juditha elegante ma un po’ pallida, distaccata, quasi poco convinta e sulla difensiva. Sul piano vocale, poi, pur all’interno di una prestazione sostanzialmente corretta, gli affondi di petto nella zona grave dispiacciono perché suonano disomogenei e scollegati rispetto agli altri registri. Ma i buh che le sono stati rivolti da qualche ineffabile spettatore suonano non solo ingenerosi ma assolutamente fuori luogo riferendosi ad un’interpretazione comunque dignitosa, oltre che risultare irrispettosi nei confronti del lavoro svolto da una impeccabile professionista.
Lo spettacolo, che premettiamo essere bellissimo e – qualità rara – pienamente in sintonia con la musica di Vivaldi, prevede la buca dell’orchestra sollevata a livello della platea e delimitata ai lati da due ordini di gradini praticabili, di modo che, nel corso dello spettacolo, solisti e coro si possono situare sia nel palcoscenico dietro l’orchestra, sia ai lati e sia davanti ad essa nello spazio che la divide dalla platea.
Nonostante questi movimenti, lo spettacolo mantiene la severità della originaria concezione oratoriale, riducendo al minimo la drammatizzazione della vicenda soprattutto nel primo atto. Nel secondo, invece, ambientato nel campo di Holofernes ove questi concupisce Juditha, quindi si ubriaca e viene decapitato, la regia racconta gli accadimenti in maniera più mossa e teatrale, pur conservando quella “dimensione essenziale, evocativa” che Elena Barbalich ha individuato come la cifra identificativa della sua messinscena.
Sempre citando tra virgolette le puntuali affermazioni della regista, “il racconto drammaturgico si snoda attraverso le suggestioni dei cambi di luce” (bellissimi e spettacolari, di Fabio Barettin) “e delle variazioni spaziali e coreografiche”, cui è il caso di aggiungere i costumi di impronta classicheggiante, di squisita eleganza e di straordinario impatto visivo anche per la vividezza dei colori, ideati da Tommaso Lagattolla. Le scene di Massimo Checchetto, anch’esse improntate ad una stilizzazione austera ed evocativa, nella loro essenzialità sono assolutamente funzionali e coerenti alla concezione registica, creando un’atmosfera atemporale ricca di un fascino arcano.
Il risultato è uno spettacolo di rara raffinatezza, che si distingue per la perfetta sintonia e complementarietà di tutte le sue componenti, a creare un ensemble armonico ed equilibratissimo anche se non ancora sufficiente a rivitalizzare sul piano teatrale una vicenda statica ed una partitura che, pur nella sua oggettiva bellezza, non sfugge al rischio di una nobile monotonia.
Alla proposta erudita è arriso un franco successo, tributato, alla pomeridiana cui si riferiscono queste note, da un pubblico variopinto e internazionale, che ha riempito il teatro in ogni ordine di posti. E si dava un oratorio sacro di Vivaldi, non “Traviata”! Che dire: chissà che continui così il più a lungo possibile, la Fenice oggi sembra un’isola felice circondata da un mare in tempesta; e chissà che il nuovo sindaco si renda conto dello splendido lavoro che da anni si sta compiendo nel massimo teatro veneziano e del suo ruolo centrale nella città lagunare, capitale dell’arte, della cultura e del turismo, sostenendolo come necessita e come merita.
Adolfo Andrighetti