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Malibran: buone idee ma troppo realismo

12/10/2015
Malibran: buone idee ma troppo realismoNe “Il diario di uno scomparso", il ciclo di poesie messe in musica da Leós Janàček per pianoforte, tenore, contralto e tre voci femminili, rappresentato per la prima volta a Brno il 18 aprile 1921, si intrecciano due vicende biografiche.
La prima è raccontata proprio in quelle poesie, originariamente pubblicate nel maggio del 1916 su di un quotidiano di Brno, che le accompagnò con una nota in cui spiegava che i componimenti erano stati ritrovati nella stanza di un giovane contadino moravo scomparso improvvisamente da casa per seguire un’affascinante zingara da cui era stato sedotto. Realtà, immaginazione, pretesto letterario escogitato dalla redazione del quotidiano per insaporire delle poesie che altrimenti sarebbero passate nell’indifferenza generale? A quanto pare, un chiarimento definitivo intervenne solo nel 1997, quando fu rinvenuta una lettera in cui lo scrittore Ozef Kalda confessava di essere lui l’autore di quelle liriche la cui origine era apparsa così incerta per diversi anni. In effetti, è difficile pensare che possa essere un contadino l’autore di versi quali “Potesse la notte durare in eterno, per permettermi di amare in eterno”, in cui riecheggia un tipico tema romantico che si ritrova pari pari nella passione che unisce Tristan e Isolde nell’opera di Wagner.
Alla vicenda a quanto pare immaginaria del contadino ingenuo e devoto sedotto dalla zingara, se ne intreccia un’altra, questa sì reale, vissuta dallo stesso Janàček, che all’epoca aveva superato la sessantina, quando si innamorò come un adolescente di una donna venticinquenne, sposa felice e madre di due figli. Le fattezze brune e sensuali della giovane gli riportarono alla memoria quelle della “zingara nera” raccontata nelle poesie e così la sua passione impossibile si alimentò di questa reminiscenza letteraria fino a sfogare nella composizione musicale proposta al Teatro Malibran.
Si tratta di un ciclo liederistico di 22 brani, uno dei quali è per pianoforte solo ad evocare la prima conoscenza sessuale fra i due giovani. Gli altri brani sono per lo più affidati alla voce del tenore, che impersona il contadino Jan. Vi si ritrova l’immagine nostalgica di una vita semplice condotta nella serenità della famiglia e del lavoro nei campi, una serenità destinata però ad interrompersi bruscamente per l’irrompere della passione, incarnata dalla zingara Zefka. L’incontro con l’eros infrange definitivamente l’innocenza originaria e apre ad una vita nuova, cui Jan si affida, dolorosamente per gli affetti familiari ormai spezzati che non si potranno più ricomporre, ma anche gioiosamente perché la vita gliene offre di nuovi, come il figlio che gli è nato.
Al Malibran la pièce di Janàček è abbinata ad un classico della produzione operistica del secolo scorso, banco di prova per le capacità interpretative e per il carisma artistico dei soprani più affermati: è “La voix humaine”, opera da camera che Francis Poulenc trasse dall’omonima tragedia di Jean Cocteau e che fu rappresentata per la prima volta all’Opéra Comique di Parigi il 6 febbraio 1959.
Anche qui si racconta una storia d’amore. Ma non è un amore che nasce, che apre ad una nuova vita, come in “Diario di uno scomparso”. E’, invece, un amore finito, di cui si celebrano le esequie. E, come in tutti i funerali, reali o metaforici, c’è chi elabora il lutto con dignità e c’è chi, invece, cerca di esorcizzarlo rifiutando la realtà. E’ il caso dell’unico personaggio presente in scena, una donna al telefono, che parla con l’amante che l’ha abbandonata aggrappandosi ai poveri resti di un amore concluso perché non ha il coraggio di vederlo scomparire definitivamente.
La voix humaine, dunque, è quella di una donna che, nel corso della telefonata, rinuncia progressivamente ad ogni dignità e ad ogni difesa, giungendo all’ammissione disperata della propria totale dipendenza dall’amato e della incapacità di immaginare una vita senza di lui. Non ci sono recriminazioni da parte di lei, né proclami, né atti di accusa verso colui che continua a chiamare “tesoro” e “amore mio”; la sua infelicità non viene scaricata sull’amante fedifrago ma solo su se stessa, come una bambina che non si è dimostrata all’altezza di un grande dono che ha ricevuto e ora può solo rimpiangerlo.
Al Teatro Malibran l’inconsueto dittico è stato affidato, in una nuova produzione della Fenice, al regista trentunenne Gianmaria Aliverta (scene Massimo Checchetto, costumi Carlos Tieppo, luci Fabio Barettin), che ha fatto anche il cameriere pur di coltivare il suo sogno artistico. Ora che ha imboccato la strada di un impegno professionale stabile, si può dire che mostri apprezzabili doti narrative, interessanti in un mondo registico ove talvolta tendono a prevalere quelle illustrative. La sua idea è di unire le due pièce in un’unica vicenda noir, con i medesimi protagonisti. Così lo scomparso diventa l’uomo di Elle (Lei), che gli si rivolge nel corso della lacerante telefonata perché da lui è stata abbandonata e sostituita con la giovane zingara.
Sin dalla levata del sipario siamo immersi in un’atmosfera da thriller. Sul palcoscenico è ricostruito un ambiente borghese dalle tinte violentemente bianche, composto da una camera da letto e da un salotto. Qui entra per un sopralluogo un funzionario di polizia, che scopre il Diario e, cantando, ne dà lettura, mentre, intorno a lui, un mimo interpreta la parte di Jan, dando gesti ed atteggiamenti agli stati d’animo che la poesia evoca. L’idea è azzeccata, anche se la sua realizzazione pecca per un eccesso di realismo, mentre si sarebbe avvantaggiata di un’atmosfera più evocativa, in linea con quella suscitata dalla musica e dal testo.
In particolare l’incontro erotico fra Jane e Zefka comincia bene, con la coppia avvinghiata che viene coperta da un lenzuolo bianco che lui trascina dal letto coniugale. Ma in seguito, anziché lasciare che sia il pianoforte a raccontare ciò che succede consegnando i due amanti all’immobilità, si preferisce far mimare i movimenti dell’amplesso, con esiti un po’ goffi e anche grotteschi, considerando che i due (né poteva essere diversamente) si amano attraverso gli abiti. Ove si capisce che la strada del realismo in teatro può far imboccare dei vicoli ciechi.
Bravo e concentrato il mimo Francesco Bortolozzo, anche se la recitazione appare fin troppo moderna ed intellettualistica, nell’esibita sofferenza ai limiti della nevrosi, per un semplice contadino.
Bene in parte il mezzosoprano Angela Nicoli, una Zefka, però, dall’erotismo troppo volgare ed esibito, mentre dovrebbe essere più sottile ed allusivo. La zingara, in fondo, più che un personaggio reale, è il simbolo dell’aspirazione dell’uomo alla liberazione da uno stato percepito come un limite, liberazione realizzata attraverso gli archetipi del sesso e della fecondità. Imperdonabile soprattutto l’abbigliamento di Zefka, più da raccordo anulare che da zingarella in grado di dare corpo al desiderio di vita e di compimento umano inconsapevolmente nutrito da Jan.
Ammirevole, per la sintonia stilistica e vocale con la parte, il tenore Leonardo Cortellazzi e pazienza per alcune asprezze timbriche quando sale. Altrettanto ammirevole al pianoforte il maestro del coro della Fenice Claudio Marino Moretti, che mette a frutto la propria esperienza di accompagnatore di lieder ad alto livello combinando con squisita sensibilità la voce dello strumento a quella del tenore e dando vita così ad un dialogo ricco di risonanze e di suggestioni di struggente lirismo.

Per “La voix humaine” ci troviamo, invece, nella sala d’aspetto di un ospedale, con il tipico arredamento e la luce fredda – di cui viene accentuato il riflesso livido – che caratterizzano questi luoghi. Qui si consuma la tragedia di Elle, che in francese significa semplicemente Lei, come se questa donna avesse perso anche la propria identità in conseguenza dell’abbandono dell’amato. E’ la stessa persona che abbiamo incontrato nella pièce precedente: all’inizio piangente e disperata in attesa dell’arrivo della polizia, alla fine (ma è un flash back) mentre cerca di trattenere, con quei poveri espedienti che le donne abbandonate conoscono bene, il suo Jan che ha deciso di andarsene con Zefka.
Ora la donna è seduta nella sala d’aspetto in uno stato confusionale, una flebo in vena, infermiere che vanno e vengono per assisterla. La sua non è una telefonata reale, ma uno sfogo delirante, al quale l’uso di un inutile cellulare conferisce un tocco ulteriore di inquietante demenza. E non è una telefonata reale per il semplice motivo che l’interlocutore giace già morto in una cameretta adiacente a quella ove la donna consuma i suoi ultimi momenti dopo averlo ucciso e in attesa dell’arrivo della polizia.
La vicenda si chiude con il suicidio di Elle, che strappa la pistola al poliziotto e si spara; un gesto, anche in questo caso, di inutile realismo, in quanto la donna è già morta nella sua umanità dopo l’abbandono da parte di Jan e il giallo – dal momento che questa è l’idea chiave del regista – avrebbe trovato adeguato compimento con il colpo di scena della scoperta del cadavere dell’uomo, la rivelazione conseguente che la telefonata era in realtà lo straziante soliloquio di una mente alterata (un’idea brillante) e l’intervento conclusivo della polizia.
Il soprano Angeles Blanca Gulìn, accompagnata dall’Orchestra della Fenice diretta con precisione, attenzione e qualche eccesso sonoro da Francesco Lanzillotta, è una Elle di lusso, immedesimata fino in fondo in un personaggio di perdente cui manca anche quell’allure alto borghese immaginato da Cocteau e Poulenc. L’artista comunica con sensibilità e passionalità ma senza eccessi di enfasi la sofferenza di Elle, dimostrandosi in tutto all’altezza dell’ostico personaggio anche in virtù di un timbro vocale caldo e denso e di una vocalità salda e ben controllata.

A tutti gli artefici dello spettacolo, compreso il regista Gianmaria Aliverta, è stato tributato un caldo successo da un pubblico attento e un po’ attempato, quello consueto dei turni pomeridiani. C’erano dei vuoti in sala, peccato: bisognerebbe capire che, di fronte all’arte e alla cultura, la mancanza di curiosità, la pigrizia intellettuale, sono un grave limite e impediscono delle esperienze comunque vitali e stimolanti, come questa presentata al Malibran.

Fonte: Adolfo Andrighetti

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