"Alla Fenice un flauto magico vivacissimo e fantasioso"
Non è semplice per un regista trovare la chiave interpretativa di un’opera enigmatica come “Il Flauto magico”, che unisce il divertimento semplice e popolaresco amato dal pubblico del singspiel alla proposta di un cammino spirituale i cui elementi costitutivi sono tratti in prevalenza dalla ritualità massonica, contaminata però con altre tradizioni.
Nel 2006, alla Fenice, l’inglese Jonathan Miller scelse di ambientare la vicenda in un contesto manifestamente illuminista: un circolo di saggi massoni che si riunisce all’interno di una sterminata biblioteca i cui volumi si estendono senza fine verso l’alto, a simboleggiare la forza della conoscenza che disperde le tenebre dell’ignoranza e della superstizione.
Una visione riduttiva, perché sacrifica la componente fiabesca e popolare dell’opera, che convive di continuo con quella programmatica, la condiziona, la ridimensiona, la sdrammatizza, dando vita ad un guazzabuglio di scarsa coerenza drammatico ma di straordinaria vitalità, in cui il genio polimorfo e misterioso di Mozart, che ama giocare a nascondino con lo spettatore affermando e poi contraddicendo, mostrando e quindi nascondendo, si trova perfettamente a proprio agio.
In questo nuovo allestimento della Fenice, Damiano Michieletto, coadiuvato per la regia da Philipp Krenn, per le scene da Paolo Fantin, per i costumi da Carla Teti, per le luci da Alessandro Carletti, per i video da Carmen Zimmermann e Roland Horvath, sceglie anch’egli di valorizzare il contesto storico di matrice illuministica in cui viene concepita l’opera, ambientandola in un altro simbolo della cultura che disperde le tenebre dell’ignoranza: dopo la biblioteca, cioè, la scuola, al cui interno Tamino e Pamina, secondo le stesse dichiarazioni del regista, “vivono il conflitto tra l’istruzione religiosa e laica (riassunto nel conflitto tra la Regina della Notte e Sarastro) e si aprono ad una scoperta degli affetti e della sessualità, della maturità come indipendenza dai padri”.
Ma la creatività di Michieletto è tale da non farsi condizionare dal punto di partenza didascalico, declinato come rifiuto di ogni dogmatismo a vantaggio della libera circolazione delle idee; anzi, questo punto di partenza finisce per essere soverchiato e messo ai margini dello spettacolo dall’elemento fiabesco e surreale. Ciò premesso, si potrebbe anche replicare all’impostazione ideologica della regia riflettendo su quanto l’appello ad una ragione astratta, ridotta a mero strumento scientifico e analitico, sempre più avulsa dal reale e assorbita dalla contemplazione di sé, quindi sempre meno capace di guardare all’uomo per quello che è veramente, abbia finito per alienarlo anziché liberarlo. Ma sarebbero considerazioni destinate a lasciare il posto in questa occasione all’ammirazione per l’uomo di teatro e per la validità dei risultati raggiunti anche nel “Flauto magico” della Fenice.
La scena principale è costituita da un’aula scolastica polverosa e fatiscente, che ai più anziani fra gli spettatori avrà evocato remoti ricordi d’infanzia. Sulla sinistra, un unico banco. Ad occupare tutto il fondo del palcoscenico, un’enorme lavagna, forse a simboleggiare quanto è sterminato il sapere umano e sotto quanti punti di vista può essere proposto, così come la stessa idea registica suggerisce. Questa lavagna è il vero oggetto magico della rappresentazione, un elemento fluido e imprevedibile attraverso il quale il fantastico entra nel reale e lo permea di sé e si può avere accesso così ad una dimensione incantata, serenamente infantile, in felice sintonia con l’ambientazione scolastica della vicenda. Dalla lavagna escono il serpente che viene ucciso dalle Tre Damigelle, la visione di Pamina in luogo del suo ritratto durante la prima aria di Tamino, il flauto magico e i campanelli d’argento di Papageno, gli animali incantati dalla musica dello strumento.
Quando si solleva la lavagna, si apre il mondo della Regina della Notte e quello di Sarastro. Il primo è una cameretta da letto ove regna un ordine borghese in cui il tempo sembra essersi fermato; è quella che Pamina ha abbandonato dopo essere stata rapita (come? E perché?) da Sarastro e che la madre da allora ha lasciato intatta come fosse un mausoleo ove custodire per sempre i feticci del suo amore nevrotico. Il mondo di Sarastro, che peraltro con i suoi collaboratori agisce anche nell’aula scolastica già descritta, è invece un bosco ricco di alberi d’alto fusto, ove il respiro si espande libero non solo fisicamente ma anche simbolicamente.
In questi ambienti, disegnati con grande creatività e forza evocativa, si snoda frizzante, divertente, sorprendente, la vicenda; con alti e bassi, certo, con soluzioni di continuità nello scorrere fluido della narrazione, con l’impostazione di fondo che talvolta calza come un guanto agli avvenimenti, talaltra si sovrappone ad essi un po’ forzandoli, un po’ costringendoli. Ma è sempre teatro vero, bel teatro, con i personaggi costruiti, lavorati uno per uno con perizia ed attenzione artigianale. Preziosi per il raggiungimento del risultato complessivo anche gli spiritosi costumi, sempre appropriati, che rimandano ad un contesto modernamente atemporale.
Tamino è un alunno indisciplinato, ribelle. Si capisce che la scuola gli va stretta e che cerca qualcosa di diverso, di più vivo, rispetto all’istruzione, presumibilmente arida, che gli viene propinata. Ma il percorso educativo che gli è riservato è più esistenziale che culturale, anche se le prove dell’acqua e del fuoco le affronterà come una verifica scolastica, seduto insieme a Pamina allo stesso banco, carta e penna a portata di mano; un percorso soprattutto esistenziale perché al centro di esso c’è l’amore come l’esperienza privilegiata attraverso la quale si deve passare per giungere alla piena conoscenza e realizzazione di sé. Antonio Poli è un Tamino robusto, perentorio, volitivo, sia vocalmente sia scenicamente. Il suo canto è smagliante e risonante in tutta la gamma - lontano dalle aggraziate sdolcinature cui una certa tradizione tenorile aveva consegnato questo ruolo – virile nella pienezza del suono di smalto pregiato e nello squillo dell’acuto, ma sempre sorvegliato, stilisticamente pertinente, capace di piegarsi quando richiesto a sonorità più tenui e soavi.
Pamina è una compagna di scuola di Tamino, semplice e fanciulla, prima cotta di lui, poi disperata perché il suo moroso non le rivolge la parola, infine ancora più innamorata e definitivamente appagata come si conviene. Le dà voce e corpo Ekaterina Sadovnikova e lo fa con una proprietà, una giustezza di accenti ed atteggiamenti, quasi commovente. La cantante, poi, è inappuntabile per la freschezza e la bellezza di uno strumento duttile e rigoglioso, governato con la giusta impostazione.
Papageno è il bidello della scuola, zoppo e piegato dall’artrite. La caratterizzazione, ovviamente voluta dalla regia, è forse eccessiva e probabilmente superflua ai fini della migliore definizione del personaggio. Ma il suo interprete, il basso Alex Esposito, è talmente bravo e padrone della parte che si finisce per dimenticare i dettagli e per applaudire con gioia l’intelligenza interpretativa dell’artista, il suo impegno evidente nel realizzare sulla scena ciò che gli viene chiesto, la sua sicurezza di cantante che ha voce e impostazione tecnica ideali per questo repertorio.
Papagena è prima un’attrice, la brava Daniela Foà, poi il soprano Caterina di Tonno, perfettamente in parte, che, da vera alter ego del suo uomo, si presenta vestita come lui, con grembiule e scopa da bidella. Intorno alla coppia felice, alla fine, si raccolgono alcuni piccoli, deliziosi replicanti del papà e della mamma, con grembiulino addosso e scopa in miniatura in mano, già pronti a ramazzare qua e là nell’atteggiamento tipico di Papageno.
La Regina della Notte di Olga Pudova è perfetta, calata in maniera impeccabile nei panni della madre nevrotica; inoltre, è vocalmente nitida, pulita, sicura, nonostante qualche sparsa asprezza timbrica, quasi inevitabile del resto considerate le difficoltà imposte da una tessitura dall’estensione impervia.
A posto il Sarastro di Goran Jurić, quasi inquietante in scena nel suo ruolo di preside illuminato ma severo, vocalmente corretto con la cavata grave ampia e risonante, il che è fondamentale per la corretta definizione del ruolo, anche se il timbro non è dei più preziosi.
Sapida la caratterizzazione che Marcello Nardis dà di Monostatos, dipinto come un ingombrante e volgare compagno di scuola di Tamino e Pamina; uno di quei ripetenti sciocchi e gradassi di cui è popolato l’immaginario scolastico, forti con i più deboli e deboli con i forti, ma in fondo non cattivi; gli antesignani familiari e innocui dei bulli di oggi.
Entusiasmante per affiatamento, aplomb vocale, verve scenica, il terzetto delle dame composto da Cristina Baggio, Rosa Bove e Silvia Regazzo. La regia le vede come tre suore, pronte a spogliarsi del velo e della cuffia davanti al bel Tamino addormentato e, nel finale, protagoniste di un rogo di libri tentato soltanto e non consumato grazie all’intervento di Sarastro. La prima trovata, quella delle suore in fregola, non è di grana particolarmente fine e troverebbe la sua collocazione più adeguata in contesti meno nobili del teatro di Mozart, anche se è condotta sulla scena con grazia e misura. La seconda, quella del rogo di libri, giunge a chiarire e a suggellare il substrato ideologico su cui si fonda l’idea registica di Michieletto, dopo che lo scorrere della vicenda e la necessità di raccontarla ha fatto quasi scomparire l’aspetto concettuale a tutto vantaggio di quello squisitamente teatrale. Si sostiene, cioè, che il senso religioso - quasi non fosse costitutivo dell’identità essenziale dell’uomo - è incompatibile con il suo sviluppo culturale. Ma nel finale l’armonia è ricomposta, in puro stile massonico, attraverso la conciliazione degli opposti. Mentre, infatti, Monostatos è punito come uno scolaro negligente, chino sul banco a fare i compiti assegnatigli da Sarastro, quest’ultimo e la Regina della Notte si volgono insieme verso la coppia degli amanti felici, a consacrarne l’unione nel segno di una universalità di bene all’interno della quale ogni contrasto trova una superiore composizione.
Nel complesso precisi, corretti, insomma inappuntabili, a coronamento di un cast di eccellente livello (brava Fenice!), Michael Leibundgut come Oratore, William Corrò come Primo sacerdote/Secondo armigero, Federico Lepre come Primo armigero e Secondo sacerdote. Simpatici, disinvolti in scena, bene intonati i Tre Geni interpretati da tre solisti del Münchner Knaberchor. La regia li vuole vestiti da minatori o da speleologi, con tanto di luce inserita nel casco da lavoro; confesso di non aver capito il perché della scelta, che avrà comunque di certo delle valide motivazioni.
La riuscitissima parte musicale si regge sulle spalle del maestro Antonello Manacorda, la cui interpretazione si è fatta molto apprezzare per una ricerca di leggerezza, di brio, di vitalità, che è sembrata originale, personale e in perfetta sintonia con la concezione registica. Inappuntabile il coro condotto da Ulisse Trabacchin.
Alla fine, alla pomeridiana cui si riferiscono queste note, successo vivissimo e pienamente meritato per tutti.
Adolfo Andrighetti
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