" “Idomeneo” indimenticabile nella lettura di Jeffrey Tate"
“Idomeneo re di Creta”, rappresentata per la prima volta a Monaco durante la stagione di carnevale del 1781, ha fama di essere la più ispirata fra le opere serie di Mozart. Sarà proprio così? E’ difficile dirlo, certe gerarchie dipendono anche dai gusti personali. Certo si tratta di una partitura di altissimo livello musicale e drammatico, non condizionata negativamente dal manierato e lambiccato libretto, tratto da una tragédie lirique di Antonine Danchet, dell’abate Giambattista Varesco, cappellano dell’arcivescovo Colloredo principe di Salisburgo.
La vicenda racconta del re di Creta Idomeneo che, tornando vittorioso dalla guerra di Troia, è perseguitato da Nettuno, al punto da promettere all’iroso re del mare, pur che calmi i venti e le acque consentendogli l’approdo in patria, di offrirgli in olocausto la prima persona che incontrerà sulla spiaggia appena sceso dalla nave. Ma il fato vuole che questa persona si riveli essere il figlio Idamante, che, mentre il padre è in guerra, governa l’isola in sua vece. Idamante è conteso dalla principessa troiana Ilia, che egli ricambia, figlia di Priamo, prigioniera a Creta, e da Elettra, figlia di Agamennone e principessa d’Argo. Il triangolo, che ricorda quello dell’“Aida” verdiana fra Radames, Aida stessa e Amneris, si scioglie nel lieto fine grazie all’intervento di Nettuno, che, per bocca dell’oracolo, scioglie Idomeneo dall’orribile voto a patto che abdichi a favore di Idamante e ne benedica le nozze con Ilia.
La partitura, in cui la vena creativa di Mozart scorre abbondante e sorgiva, presenta una singolare ma feconda commistione stilistica fra l’influsso della scuola italiana e quello esercitato da Gluck. Il primo è presente nella cantabilità e nella freschezza delle melodie. Il secondo, invece, si ravvisa nella cura posta nella scrittura dei recitativi, quasi tutti accompagnati, e nel tentativo di trascorrere fra questi, i pezzi chiusi, i recitativi secchi e viceversa, senza soluzioni di continuità, in un gioco di variazioni fluido ed elegante. Ma Gluck è presente anche nel rilievo attribuito alle parti corali, di particolare solennità ed eloquenza. A tenere insieme il tutto, un tessuto connettivo orchestrale di singolare ricchezza e varietà.
Questo splendore musicale è stato affidato, nello spettacolo inaugurale della stagione operistica 2015/2016 della Fenice, alla bacchetta magica di Jeffrey Tate, che ha confermato le doti peculiari e del tutto fuori dal comune di cui aveva già dato prova a Venezia dirigendo il ciclo del Ring. Tate sa essere lucido, analitico, chiarissimo e insieme vivido, luminoso, appassionato. Nelle sue interpretazioni realizza un perfetto equilibrio fra razionalità e sentimento, fra distacco ed emotività, donandoci così l’esperienza esaltante di una lettura ove l’evidente bellezza della musica, offerta con magistrale chiarezza, è il luogo sublime in cui le passioni umane si incontrano e si scontrano, per poi trovare compimento in una dimensione di superiore ma non disincarnata armonia.
Tate - in perfetta sintonia con l’orchestra ed il coro diretto da Claudio Marino Moretti e coadiuvato da un cast discreto - riesce a tenere in piedi, con la sua musicalità sovrana, uno spettacolo brutto e inconcludente, dovuto alla regia di Alessandro Talevi, alle scene di Justin Arienti, ai costumi di Manuel Pedretti, al disegno luci di Giuseppe Calabrò, alle coreografie di Nikos Lagousakos. E’ uno spettacolo né tradizionale né moderno, né convenzionale né innovativo, semplicemente confuso e velleitario, che affastella disordinatamente spunti, trovate, intenzioni. Ne esce un pasticcio indigesto che non serve alla musica e non aiuta a leggere la vicenda, ma si appiccica all’una e all’altra come un corpo estraneo. Ciò che manca è proprio una cifra unitaria, un’idea di fondo che conferisca all’insieme una identità precisa sul piano teatrale.
I momenti peggiori sono rappresentati dalle celebrazioni in onore di Nettuno nel Primo Atto, una tavolata da matrimonio strapaesano con colossale spaghettata, crostacei di plastica e una volgarità esibita; nel Terzo Atto dalle vesti sporche di sangue esposte come ad asciugare, che contraddicono il momento teatrale in cui Ilia invoca i zeffiretti lusinghieri, le piante, i fiori, e soprattutto rappresentano un modo incongruo ed infelice di trasmettere il senso di morte che aleggia ovunque per la presenza del mostro inviato dall’ira di Nettuno. Come incongrua, nello stesso atto, è l’esibizione dei corpi avvolti in fasce delle vittime, delle quali non dovrebbero esserci resti dal momento il mostro è un divoratore di esseri umani.
Non convince neppure la ricostruzione della corte di Idomeneo, una sorta di club nautico all’inglese dominato da una libreria a giorno che occupa la parete di fondo. Migliore, invece, la visione del mare in tempesta, realizzata attraverso rulli scorrevoli; così come appare riuscita anche l’apparizione del mostro, una ricostruzione di plastica evidenza con coristi e comparse che si dibattono per liberarsi dalle spire dell’orribile serpentone.
Purtroppo alla confusione generale contribuiscono anche i costumi, incerti tra una contemporaneità atemporale di squallida trasandatezza per gli uomini, e abiti lunghi fino ai piedi dalle fogge classicheggianti per le donne. Non si può dire di meglio per le superflue coreografie.
E’ discutibile anche la caratterizzazione dei due personaggi principali, Idomeneo e Idamante, cui viene assegnata una recitazione troppo carica ed esibita, che rischia di snaturarne l’identità più profonda. Idomeneo, in particolare, sembra un volgare lupo di mare in preda ad uno stato di sovraeccitazione continua, piuttosto che un re cretese di nobile sentire, che custodisce in sé la sofferenza della conciliazione impossibile fra le esigenze dell’amore paterno e quelle dell’amor di patria. Il tenore inglese Brenden Gunnell gli conferisce un fraseggio incisivo e a tratti rovente, che mette in pieno risalto gli stati d’animo contrastati del personaggio, ma delude nell’aria “Fuor del mar ho un mare in seno”, ove si mostra impari all’impegno belcantistico, che richiederebbe non solo un timbro più rotondo e vellutato, ma anche emissione omogenea e legata, nonché agilità risolte con maggior scioltezza.
Idamante si presenta come un ragazzaccio maleducato, non cattivo ma un po’ caposcarico, perfettamente a suo agio nella corte di debosciati di cui si circonda. Poi le circostanze lo fanno crescere, ma rimane il disagio per una recitazione troppo realistica per il contesto culturale cui appartiene l’opera, troppo agitata, troppo gesticolata. Per fortuna Monica Bacelli è artista di classe e grazie ad un’acuta sensibilità interpretativa, ad un fraseggio di sorprendente varietà e ad una perfetta consapevolezza stilistica, il suo Idamante si impone comunque.
Gli altri personaggi sono consegnati ad una dimensione meno concitata. La Ilia del soprano Ekaterina Sadovnikova, anzi, presa in mezzo fra un amante e un futuro suocero così agitati, sembra quasi a scartamento ridotto. Ma l’artista canta bene, è molto educata sul piano vocale, e offre un profilo raccolto e quasi remissivo, di femminile dolcezza, che a Ilia si addice.
L’Elettra di Miachaela Kaune è valida se valutata nel complesso della sua prestazione, ma non c’è dubbio che l’artista, considerati i mezzi vocali di cui dispone ed il temperamento drammatico che esibisce, può fare meglio, acquisendo più sicurezza nella linea di canto e migliorando la dizione, che è fondamentale sempre e in questo repertorio ancora di più.
L’Arbace di Anicio Zorzi Giustiniani esprime i propri sentimenti con una eleganza che non ne raffredda l’intensità. L’artista merita un bravo perché sa trarre il miglior partito, grazie alla preparazione tecnica e stilistica, da mezzi non straordinari.
Il cast si completa con il Sommo Sacerdote di Nettuno, bene in voce e in parte, di Krystian Adam e con la sgradevole – forse perché amplificata - Voce dell’oracolo di Michail Leibungut.
Alla serale cui si riferiscono queste note il successo c’è stato, soprattutto per Tate e Gunnell, ma tributato frettolosamente: forse per l’ora già tarda dopo uno spettacolo durato quasi quattro ore, forse perché ciò che si era visto in palcoscenico non era entusiasmante, forse perché i tempi grami invogliano a rintanarsi subito in casa.
Fonte: Adolfo Andrighetti