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“Stiffelio“ di transizione alla Fenice

25/01/2016
“Stiffelio“ di transizione alla Fenice“Stiffelio”, rappresentata per la prima volta al Teatro Grande di Trieste il 16 novembre 1850, è un’opera singolare ed importante insieme, perché segna una tappa cruciale nel percorso artistico di Verdi, che infatti, di lì a poco, avrebbe composto “Rigoletto”. Non vi è dubbio, quindi, che il maestro stava cercando soggetti nuovi, originali, che gli permettessero di sviluppare una drammaturgia forte, capace di afferrare il pubblico e di non mollarlo più fino alla fine.

“Rigoletto” rappresenta l’approdo più noto e anche più compiuto di questa ricerca, perché mette in scena non un eroe di sublimi sentimenti, bello e perseguitato dalla sorte, secondo la prassi del melodramma romantico, ma un gobbo dalla psicologia complessa, diviso fra la sprezzante perfidia esercitata con competenza professionale alla corte del Duca di Mantova e l’amore soffocante e possessivo, ma non per questo meno totalizzante, nutrito verso la figlia.

Ma anche “Stiffelio” - il librettista Francesco Maria Piave lo trasse dal dramma “Le Pasteur” di Souvestre e Bourgeois risalente soltanto a due anni prima e cioè al 1848 - presenta un protagonista non convenzionale. Si tratta di un pastore protestante il quale, venuto a conoscenza del tradimento della moglie Lina, vive il dramma del conflitto fra l’offesa subita, che lo spingerebbe a chiedere il divorzio e a fare giustizia sommaria del seduttore Raffaele, e lo sguardo più ampio e profondo suggeritogli dalla fede cristiana, che gli svela il valore umano del perdono. E’ la stessa Lina, subito pentita di quello che è stato soltanto un cedimento seppure maturato in circostanze non chiarite, a spalancare allo sposo questa prospettiva sorprendente, chiedendogli di essere confessata per il peccato commesso. E Stiffelio, chiamato a diventare strumento della misericordia di Cristo attraverso il sacramento, finisce per mettere da parte i suoi propositi di vendetta, che, se realizzati, lo riposizionerebbero nella galleria degli stereotipi del melodramma romantico, e perdona la sposa. Lo fa nella memorabile scena finale, tanto sintetica quanto drammaticamente cogente secondo il miglior stile verdiano, quando, leggendo ai fedeli il brano evangelico dell’adultera perdonata, fa proprio ed estende alla sposa l’atteggiamento di Gesù, che reintegra la peccatrice nella pienezza della sua dignità umana.

Ed è significativa la coincidenza che vede, a poche settimane dall’apertura dell’Anno Santo della misericordia da parte di papa Francesco, questo tema proposto anche alla Fenice, in un’opera che racconta il trionfo della misericordia non come un approdo automatico, quasi scontato, ma come il frutto sofferto di un percorso umano e spirituale che ha in Cristo la ragione di una scelta altrimenti impossibile per le capacità umane.

L’originalità di Stiffelio risalta ancora di più se confrontata con la piattezza del suocero Stankar, preoccupato soltanto di salvaguardare il logoro feticcio dell’onore violato, così manifestamente inadeguato rispetto ad un abbraccio che sa scendere nel più profondo del cuore umano per sanarne ogni ferita.

Questo nuovo allestimento di “Stiffelio” al Teatro La Fenice, è stato affidato a Johannes Weigand, il regista tedesco che ha giustamente ottenuto il prestigioso riconoscimento del Premio Abbiati per la riuscitissima messa in scena dell’opera “Le porte della legge” di Sciarrino, ancora alla Fenice. Ma l’opera contemporanea è lontana come cultura e sensibilità da quella romantica e in quest’ultima l’esito risulta meno significativo. Lo “Stiffelio” di Weigand, in effetti, non tradisce Verdi, come talvolta succede soprattutto nel teatro di regia di scuola tedesca, ma neppure riesce a collocarlo in una luce particolare, che ne evidenzi e valorizzi la sostanza drammaturgica.

La scenografia (Guido Petzold) è iperstilizzata, in linea con un approccio culturale all’opera post-moderno. C’è un’alta parete simile ad una grata, che quando si apre lascia vedere una sorta di totem tecnologico, un faro a tre luci che si slancia verso l’alto e diventa il pulpito da cui saranno ripetute e rese vive le parole di perdono pronunciate da Gesù all’adultera. Tutto l’insieme, parete e struttura verticale, trasmette un sentore metallico, ferrigno, come di un mondo artificiale che ha perso ogni rapporto con la natura, forse a simboleggiare l’anormalità dell’isolamento in cui si chiude la setta protestante alla quale appartiene Stiffelio rispetto alla realtà circostante.

La scenografia è completata, verso il proscenio, da un lungo tavolo intorno al quale si annodano e si sciolgono le relazioni fra i personaggi, animati da una concezione registica semplice, corretta, per nulla innovativa. Con la scenografia fantascientifica, ravvivata dalle luci efficaci ancora di Guido Petzold, contrastano in modo singolare i costumi d’epoca, alquanto dimessi, disegnati da Judith Fischer.

Sul podio Daniele Rustioni sostiene con ottimi esiti un’opera che di tanto in tanto correrebbe il rischio come di spegnersi, di afflosciarsi su se stessa, scegliendo tempi vivaci in linea con le indicazioni metronomiche di Verdi, che notoriamente rifuggiva come la peste ogni lungaggine musicale e drammaturgica. Rustioni, inoltre, sa trovare il vigore e l’accesa drammaticità quando è necessario, cura gli accompagnamenti con sensibilità, mette in evidenza gli originali colori della partitura e conferisce una emozionante intensità ai concertati, che governa con ammirevole perizia.

Il tenore Stefano Secco è uno Stiffelio credibile, nonostante uno strumento non benedetto dalla musa del canto. L’artista gioca la sua interpretazione su di un fraseggio eloquente ed emozionato, di notevole sensibilità drammatica, e alla fine il personaggio, sviscerato nella sua dimensione più intima e sofferta, viene risolto con successo.

Il soprano USA Julianna Di Giacomo è una Lina appassionata, che fatica a controllare soprattutto in acuto una voce ampia e sonora, poco incline alla varietà dinamica.

Il baritono greco Dimitri Platanias è uno Stankar truce come da cliché, ma si dimostra anche molto musicale soprattutto nei pezzi d’assieme e abile nel canto a mezza voce.

Vocalmente presente e prestante lo Jorg del basso sud coreano Simon Lim, che del personaggio mette in evidenza una rigida e distaccata austerità piuttosto che il rapporto di amicizia e confidenza con Stiffelio.

Molto bene le parti di fianco, a cominciare dal Raffaele di Francesco Marsiglia, per proseguire con la Dorotea di Sofia Koberidze e il Federico di Cristiano Olivieri. A posto come sempre il coro istruito da Claudio Marino Moretti.

Alla pomeridiana cui si riferiscono queste note successo vivo e cordiale per tutti, con accenni di particolare entusiasmo per Rustioni e Platanias.

Adolfo Andrighetti

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