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Butterfly, Myung-Whun Chung: ed è pura poesia alla Fenice

24/03/2016
Butterfly, Myung-Whun Chung: ed è pura poesia alla FeniceTutti gli scrittori che possono essere riferiti a "Madama Butterfly" trassero in qualche modo ispirazione dal romanzo "Madame Chrysantheme" di Pierre Loti: John Luther Long, autore del racconto omonimo; David Belasco, che concepì insieme a Long l'omonima tragedia ricavata dal racconto, tragedia che a Londra suscitò l'interesse di Puccini; infine, Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, autori del libretto dell'opera.

Ebbene, anche in Loti, come in Puccini, incontriamo un ufficiale di marina. Uno è francese, certo, e l'altro statunitense, ma non cambia il loro atteggiamento verso il Giappone, caratterizzato da una totale incomprensione di quel mondo visto come un concentrato di pittoresche e aggraziate bizzarrie e da un larvato senso di superiorità verso una diversità antropologica apparentemente impenetrabile. Entrambi appaiono abituati a quella precarietà di rapporti sentimentali cui sono indotti dal girovagare da un Paese all'altro. E quindi entrambi cercano un'avventura sessuale in quel Paese ove ci si può sposare a termine: l'ufficiale USA esibendo un vitalismo sciocco e viriloide, il francese con un atteggiamento diverso, contemplativo, vagamente malinconico e crepuscolare, specie quando si rende conto che le giapponesi, con la loro grazia affettata ed infantile, non incontrano i suoi gusti. Ma la sostanza non cambia, tutti e due sono in cerca di facili distrazioni erotiche.

Ma c'è un punto ove la vicenda raccontata da Loti si distacca in maniera decisiva da quella dell'opera. E' la mattina della partenza dal Giappone, l'ufficiale francese - il romanzo è raccontato in prima persona - si reca nella casa ove ha vissuto con la "moglie" Chrysanthéme per congedarsi da lei definitivamente e la trova intenta a saggiare il buon conio del denaro con cui è stata compensata, in base a regolare contratto, della sua prestazione matrimoniale.

Ecco la differenza: Chrysanthéme, chiusa in una dimensione che appare impenetrabile al "marito", non dimostra alcun interesse affettivo nei suoi confronti, appagata di aver assolto correttamente la propria obbligazione contrattuale con i modi formali e le maniere gentili di cui ha sempre sovrabbondato verso l'uomo. Butterfly, invece, come Sharpless ripete a quel bietolone di Pinkerton, ci crede; ha investito tutta se stessa in quella passione impossibile, come può fare una quindicenne innamorata perdutamente. La protagonista del romanzo rimane una figura ornamentale da paravento, da vaso laccato, o almeno così appare allo sguardo deluso e vagamente infastidito dell'occidentale francese. Butterfly, invece, acquista uno spessore umano indimenticabile: dallo sperare contro ogni evidenza nasce la sua grandezza, mentre il suicidio ne conferma la fragilità, povera farfalla rimasta sola a sostenere un atto di fede che la realtà ha crudelmente smentito.

La "Madama Butterfly" in scena questi giorni alla Fenice è una riproposta dell'allestimento, bello ed originale, già visto nel 2013 nell'ambito della 55^ Esposizione Internazionale d'Arte della Biennale di Venezia e allora giustamente molto pubblicizzato per le scene e i costumi firmati da Mariko Mori, artista molto quotata a livello internazionale per la sua capacità di fondere la tradizione giapponese con la tecnologia di oggi. Rivista oggi, l'ambientazione scelta da Mariko Mori non ha perso nulla del suo fascino, legato ad una eleganza essenziale e stilizzata in cui dominano la luce e il colore bianchi (a proposito, complimenti al light designer Albert Faura). Così la vicenda viene collocata in una dimensione quasi metafisica, ove regna il simbolo a scapito del riferimento realistico, e la tragedia di Cio-Cio-San viene sublimata nell'universalità di un dolore assoluto, fuori dal tempo e dallo spazio.

Tuttavia questa ripresa è servita anche per restituire il giusto risalto alla regia intelligente dello spagnolo Alex Rigola, direttore della sezione Teatro della Biennale di Venezia, la cui interpretazione dell'opera si segnala per la capacità di infondere umanità ai personaggi, evitando così che l'astrattezza dell'allestimento li blocchi in un gelido immobilismo psicologico. Invece la sofferenza di Cio-Cio-San, rappresentata con una sensibilità tanto più acuta quanto più intensamente interiorizzata, la presenza misurata ed espressiva di Suzuki, l'impotenza rassegnata di Sharpless di fronte al precipitare degli eventi, la tenerezza di Dolore, pronto a cingere con le braccine tutti coloro che gli vogliono bene compreso il console; insomma, tutto l'universo umano che si anima sul palcoscenico, si sposa perfettamente con l'ambientazione, che evita così il rischio del cerebralismo per diventare invece il luogo ove le passioni non vengono sterilizzate ma trascorrono dal particolare all'universale.

Ma è altrettanto indiscutibile che il protagonista di questa ripresa è il maestro sud-coreano Myung-Whun Chung, artista da ammirare ed amare incondizionatamente perché come pochi sa insufflare la vita nella grande musica del passato, restituendocela in quella bellezza e freschezza che non ha tempo. Questa volta, assecondato perfettamente dall'orchestra e dal coro del Teatro diretto da Claudio Marino Moretti, è sembrato accarezzare il suono, accompagnandolo - senza mai "lasciarlo andare" - in sonorità nitide, terse, eppure morbide, rotonde, mai esasperate, prive di ogni asprezza e lontane da qualunque effettismo. Ne è scaturita un'atmosfera di bellezza assoluta e di pura poesia. La tragedia ne risulta come decantata, purificata, pur non perdendo nulla della sua forza. Al punto che, al calare del sipario, penso che ben pochi fra il pubblico cosmopolita che gremiva il teatro non avessero gli occhi lucidi e il cuore rinfrancato dall'intuizione di possedere un po' più di verità: perché, come scrive san Tommaso, "Pulchrum veritatis splendor". Una bellezza così grande e così universale che non era ridotta né avvilita dalle terribili notizie che in mattinata erano arrivate da Bruxelles sull'ennesima strage perpetrata dagli adoratori del nulla. Alle vittime è stato dedicato un minuto di silenzio prima dell'inizio dello spettacolo; ma come un requiem solenne con il quale sono state affidate alla Misericordia divina è suonato il coro a bocca chiusa intonato in platea con effetto carico di suggestione.

L'arte del maestro sud-coreano non sarebbe stata sufficiente a trascinare gli animi, se sul palcoscenico non ci fosse stata una protagonista di valore assoluto quale la connazionale Vittoria Yeo, capace di comunicare con un'intensità concentrata e raccolta veramente commovente tutte le emozioni che il personaggio custodisce. E ciò con una linea di canto impeccabile, emissione ferma ed omogenea in tutta la gamma, varietà di dinamiche mai esibita ma sempre finalizzata all'espressione, timbro sano e di buona polpa, dizione adamantina. Insomma, un'interpretazione di alta classe, salutata con meritate acclamazioni alla fine dell'opera.

Il giovanissimo tenore Vincenzo Costanzo, classe 1991, è un Pinkerton che deve maturare un timbro più pastoso, un'emissione più morbida, appoggio e proiezione migliori soprattutto nella zona centro-grave. Ma le potenzialità ci sono, il personaggio viene fuori, quindi coraggio.

Il bravo ed esperto baritono Luca Grassi, Sharpless, interpreta un primo atto con voce robusta e sonora, forse anche troppo, facendo desiderare un più vario ed accorto gioco di sfumature. Quando lo cerca, però, nei due atti successivi, alleggerendo l'emissione, i risultati non sono entusiasmanti e il canto di conversazione suona sempre un po' impacciato, carente di fluidità e scorrevolezza.

Manuela Custer è una Suzuki che resta nella memoria. L'artista si immedesima nel personaggio con singolare partecipazione e squisita sensibilità, restituendolo in tutta la sua schiva e dolente umanità.

Il Goro del tenore Luca Casalin non è una macchietta, una caricatura della malvagità e dell'avidità, come talvolta capita a causa di interpretazioni che vanno in cerca esageratamente del colore, ma un personaggio a suo modo dignitoso, sicuro del suo ruolo nella società nipponica, eppure proprio per questo ancora più spregevole ed inquietante.

Bene in parte e vocalmente a posto anche lo zio bonzo del basso Cristian Saitta e il principe Yamadori del basso-baritono veneziano William Corrò.

Alla serale cui si riferiscono queste note successo caldissimo per tutti con punte incandescenti per Vittoria Yeo e Myung-Whun Chung.

Adolfo Andrighetti

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