“L’amico Fritz” e il difficile confine fra semplicità e mediocrità
Ma a questa manifestazione pagana - nonostante i riferimenti ad un cristianesimo puramente rituale – delle passioni umane nel pieno della loro sovraeccitata violenza, seguì il suo contrario, cioè “L’amico Fritz” (31 ottobre 1891, ancora al Teatro Costanzi di Roma): un’opera, o meglio un’operina, composta ed educata, impregnata di perbenismo borgese, che seppelliva i demoni ancestrali evocati da “Cavalleria” e li sostituiva con angioletti dal sorriso beatifico tratti dal salotto buono della nonna.
In realtà “L’amico Fritz” fu una sfida che Mascagni accettò e condusse fino in fondo con caparbietà livornese. Alcuni insinuavano che la forza creativa di “Cavalleria” fosse dovuta non tanto alle doti musicali del compositore esordiente, quanto alla potenza espressiva dell’omonima novella di Giovanni Verga, alla quale l’opera si ispirava.
E Mascagni, punto sul vivo, anziché andare in cerca di un soggetto altrettanto forte quanto quello di “Cavalleria” – scelta comunque rischiosa perché avrebbe significato confrontarsi con un successo planetario giocando sul medesimo terreno – decise di cambiare completamente genere e di musicare una vicenda drammaticamente impalpabile, anzi evanescente, quasi crepuscolare. E ciò per dimostrare che la sua ispirazione non aveva bisogno di appoggiarsi a passioni incandescenti e all’emotività più sbrigliata per essere vincente e convincente.
Nacque così “L’amico Fritz”, sul libretto che Nicola Daspuro, sotto lo pseudonimo di P. Suardon, trasse dall’omonimo romanzo e poi pièce teatrale del 1876 a firma Erckmann e Chatrian: una vicenda che, in un’Alsazia idilliaca come un quadretto naïve, vede il giovane signore del luogo, ricco e di buoni sentimenti, convolare a giuste nozze con la dolcissima e ingenua figlia del fattore grazie alle abili manovre del rabbino, che ha la vocazione a combinare matrimoni.
Il risultato è un’operina per larga parte accattivante e gradevolissima, in virtù di una strumentazione lieve e seducente come un sospiro di Suzel, ma anche per un violino ruffiano che compare di tanto in tanto e per la presenza di una felice vena melodica. Così il primo atto e quasi tutto il secondo scorrono via freschi e delicati, grazie ad una vena aggraziata, dolcemente sentimentale, anche raffinata, non priva di un suo fascino ingenuo e pudico. Né manca, a completare l’impasto tenuto insieme dall’abilità del cuoco Mascagni, un lieve tocco di sensualità (nel duetto delle ciliegie), una venatura di allegria domestica e bonaria, un pizzico di una malinconia fanciullesca svelta a dissiparsi. Nel prosieguo dell’opera, invece, quel sorriso da idillio campestre sembra disperdersi e l’espressione dei sentimenti - sia la sofferenza dei due innamorati ciascuno dei quali si crede non ricambiato dall’altro, sia la loro passione quando si dichiarano nel finale - si fa più convenzionale.
Alla Fenice, dove “L’amico Fritz” non si vedeva dal 1955, è stato messo in piedi uno spettacolino semplice, quasi elementare, con la regia di Simona Marchini, che già si era confrontata con questo titolo a Livorno nel 1991, le scene di Massimo Checchetto, i costumi di Carlos Tieppo, le luci di Fabio Barettin. La vicenda viene presentata così come la racconta il libretto, senza alcuna pretesa di originalità ma soltanto con il desiderio di restituire l’atmosfera quotidiana, familiare eppure vagamente fiabesca – Simona Marchini lo sottolinea nelle Note di regia – che permea l’opera. In effetti, una presenza come quella del rabbino David, che, in quanto rappresentante della dimensione soprannaturale, è in grado di portare la felicità alle persone restituendole alla loro naturale vocazione d’amore, non può non richiamare tutte le positive espressioni del magico di cui pullulano le fiabe.
Ora, questa impostazione quieta, di basso profilo, adottata dalla regia, è forse l’unica in grado di mettere in scena “L’amico Fritz” senza stravolgerlo. L’operina, in effetti, è troppo delicata per sopportare una mano registica pesante ed invasiva. Tuttavia è anche vero che quanto si è visto, pur rispettoso del lavoro di Mascagni, risulta alla fine convenzionale fino all’ovvietà, per cui il confine fra apprezzabile linearità e piattezza risulta labile.
Né sono in grado di conferire sapore allo spettacolo i costumi, le scene e le luci. I primi, ispirandosi alla tradizione alsaziana, sono fin troppo oleografici anche se coerenti con uno spettacolo che vuole raccontare più che interpretare. La realizzazione scenografica, a sua volta, pur proponendo l’unico elemento simbolico e non realistico dell’allestimento, risulta poco funzionale all’insieme ed esteticamente discutibile. La struttura lignea coloro verde scuro che inquadra il palcoscenico e al cui interno si muovono i personaggi, infatti, se rappresenta il rigido confine che Fritz impone alla propria vita rifiutandosi di ravvivarla con l’amore coniugale, costituisce però un elemento teatralmente ingombrante e fastidioso, che appesantisce il disinvolto svolgersi sulla scena della vicenda minimalista e quasi la soffoca nel secondo atto, ove l’arioso quadro del giardino delle ciliegie viene trasformato in una ambiente chiuso ed opprimente. Il disegno luci, infine, è talmente discreto da risultare ininfluente.
Sul podio Fabrizio Maria Carminati dirige con cura, perizia e sensibilità, mettendo in risalto il delicato strumentale mascagnano, ma anche con qualche enfasi verista di troppo, quasi alla ricerca di una continuità fra l’idilliaco “Amico Fritz” e la sanguigna “Cavalleria rusticana”, che lo precede.
Sul palcoscenico emergono le due presenze femminili. Carmela Remigio si conferma ancora una volta artista di classe, vocalmente ferrata e, sul piano interpretativo, partecipe e coinvolta fino in fondo. Sono le doti che le hanno meritato il Premio Abbiati 2016 conferitole dalla critica musicale. La sua Suzel non è solo ben cantata ma anche intensa, appassionata, emotivamente viva, pur senza forzare la natura del personaggio, che rimane quella di una semplice e candida fanciulla di campagna. In questo modo si realizza in pieno l’idea che la regia ha di Suzel come “creatura lieve e solida insieme, espressione di un femminile a suo modo forte e strutturato”.
Eccellente la caratterizzazione che del personaggio en travesti dello zingaro Beppe dà Teresa Iervolino. Nonostante un imbarazzante costume da pirata, infatti, il mezzosoprano impone non solo una presenza sicura e disinvolta, ma anche un canto rotondo, omogeneo, sonoro, dal bel colore brunito.
Più discontinua la prova dei due protagonisti uomini. Il tenore Alessandro Scotto di Luzio è una perfetto Fritz grazie all’accattivante presenza scenica e ad un modo elegante, a tratti malinconico e quasi blasé, di porgere la parola cantata. Eppure qualcosa ancora non va nell’emissione, che dovrebbe essere, specie nella zona medio-alta, più morbida, più omogenea, meno tesa.
Anche il baritono Elia Fabbian è più che credibile nel ruolo del rabbino David, ma non sempre il controllo della linea di canto è impeccabile e qualche eccesso sonoro conferisce al personaggio un’accentuazione drammatica fuor di luogo.
Ben caratterizzati e in parte i comprimari, dalla coppia di amici di Fritz incarnati con spirito e buona resa vocale dal basso- baritono William Corrò (Hanezò) e dal tenore Alessio Zanetti (Federico), alla apprezzabile Caterina del soprano Anna Bordignon. Di alto livello, come ormai di prammatica, la prestazione del coro diretto da Claudio Marino Moretti.
Alla pomeridiana cui si riferiscono queste note è stato tributato allo spettacolo un successo cordiale.
Adolfo Andrighetti
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