Alla Fenice “Mirandolina”, ovvero del femminismo pratico
Un bel personaggio, questa Mirandolina, perché è una donna indipendente e padrona di sé sul piano economico quanto su quello sentimentale; una vera e propria femminista ante litteram, che fa l’imprenditrice gestendo con mano ferma una locanda e non ha bisogno di attaccarsi ai pantaloni di un uomo per sentirsi realizzata.
Anzi, gli uomini se li fa girare attorno alla punta del grazioso dito indice, con uno stile che potrebbe incontrare il consenso entusiasta di Despina, la servetta smaliziata del “Così fan tutte” mozartiano e dapontiano, secondo la quale “una donna a quindici anni dée saper ogni gran moda, dove il diavolo ha la coda, cosa è bene e mal cos'è; dée saper le maliziette che innamorano gli amanti: finger riso, finger pianti, inventar i bei perché”.
E non vi è dubbio che Mirandolina è libera docente di quelle arti femminili che Despina decanta, dal momento che si diverte a farsi corteggiare da tutti gli avventori della sua locanda, tenendoli sulla corda senza concedersi pur non cessando di attizzare il loro desiderio. Così fa con il ricco conte d’Albafiorita, di nobiltà recente e comprata con il denaro, e con il marchese di Forlimpopoli, di antico lignaggio ma squattrinato; il primo vuole conquistare Mirandolina abbagliandola con i diamanti che le regala, il secondo esibendole la propria altolocata protezione, come il don Giovanni di Mozart con le contadine che invita alla festa a palazzo.
Il cavaliere di Ripafratta, invece, che è un orso misogino, se lo compra con una tattica da sublime stratega dell’eros, prima assecondandolo nei suoi pregiudizi contro l’altro sesso e poi scaldandolo con “le maliziette che innamorano gli amanti”. Ma così, per orgoglio femminile, per dimostrare prima a se stessa e poi anche agli altri che lei è in grado di cucinare al punto giusto qualunque uomo, non perché le importi qualcosa del cavaliere.
E alla fine si sposerà con il cameriere Fabrizio. Forse perché le importa qualcosa di lui? C’è da dubitarne. Probabilmente perché qualcuno si deve pur sposare se non altro per il decoro e un cameriere devoto, che a lungo è stato tenuto in una bagnomaria sentimentale per garantirsi da lui il miglior servizio possibile, si preannuncia come un marito più accondiscendente e meno pretenzioso di quei nobili che le ronzano attorno. La libertà prima di tutto.
Lo spettacolo visto alla Fenice (Gianmaria Aliverta regia, Massimo Checchetto scene, Carlos Tieppo costumi, Fabio Barettin luci) è perfettamente intonato alla musica, di cui asseconda il ritmo serrato, incalzante, interrotto di tanto in tanto da qualche oasi lirica di maggiore distensione.
Lo stile scelto è quello della commedia brillante, con qualche concessione alla farsa ma anche ad una espressione più seria dei sentimenti, specie quando agisce il trio di personaggi meno buffonesco e più coinvolto dalla sincerità delle passioni, vale a dire Mirandolina, il cavaliere di Ripafratta e il cameriere Fabrizio. L’ambientazione è contemporanea, come è giusto che sia per un’opera che si ispira alla commedia di Goldoni piuttosto che metterla in scena e propone il confronto (o il conflitto) fra i sessi come un gioco senza tempo che funziona oggi come ieri e l’altro ieri. La locanda diventa così un albergo moderno dotato di ogni confort, anche se alquanto freddo per le scene bianche ed asettiche, che riproducono sia ambienti riservati agli ospiti (la zona benessere) sia altri destinati al lavoro dei dipendenti (la lavanderia-stireria). Le scene si alternano rapidamente ruotando su se stesse e permettendo così di non rallentare il ritmo vorticoso dell’azione.
All’interno di questo mondo un po’ artificiale con quel lusso odierno più ostentato che reale, si muovono vivacissimi i personaggi, tutti individualmente e gustosamente caratterizzati e tutti vestiti con gli abiti che più si confanno alla loro caratterizzazione. La regia, infatti, si mostra accurata, attenta, in grado di ottenere dagli artisti il meglio di quello che ciascuno può dare sul piano teatrale. L’unico rischio in cui si può incorrere, quello dell’eccesso caricaturale, di un bozzettismo troppo smaccato ed esibito, viene quasi sempre evitato e la messa in scena nel complesso rimane al di qua del pericoloso crinale del buon gusto.
In quest’opera strutturata a coppie, le più colorite sono quelle del conte d’Albafiorita e del marchese di Forlimpopoli da un lato, delle due “comiche” Ortensia e Deianira, dall’altro. Il conte, interpretato da un Marcello Nardis divertito, esuberante e perfettamente nella parte, è un riccone di esibita e compiaciuta volgarità, cui conferisce un colore particolarmente greve qualche uscita (ma non troppe per fortuna) in romanesco. Interagisce con lui per contrasto il marchese di un eccellente Bruno Taddia, dall’aplomb grottesco e stilizzato insieme, che dà vita ad uno squisito esemplare di nobile decaduto affettato e fricchettone, nello stesso tempo ipercinetico e blasé, di vaga estrazione “lumbard”.
Le due commedianti, o attricette, diventano una coppia di amiche buzzurre e sguaiate in cerca di facili divertimenti. Le interpreti sono le bravissime Giulia Della Peruta (Ortensia) e Laura Verrecchia (Deianira), che agiscono anch’esse per contrasto: l’una bionda e l’altra mora, l’una vistosamente femminile stile bionda svampita, l’altra un maschiaccio che mastica chewing-gum e si presenta inguainata in una tutina nera da motociclista.
Rimane Mirandolina e i due uomini che le girano attorno, cioè il cavaliere di Ripafratta e Fabrizio: un trio che è estraneo al versante francamente buffo per agire in quello brillante e sentimentale. Fabrizio, il cameriere cui la padrona comunica la propria intenzione di sposarlo (questo sì che è vero femminismo!) è impersonato con misura, garbo e il consueto stile vocale appropriato ed elegante da Leonardo Cortellazzi. Omar Montanari dà vita ad un bel cavaliere, burbero e vulnerabile allo stesso tempo, molto umano nello smarrimento con cui assiste alla perdita progressiva di tutte le sue difese di fronte alle invincibili arti femminili, vocalmente sempre pronto e presente. Con il suo servitore, invece, un bravo Christian Collia sempre sudato per l’imbarazzo ed il nervosismo che gli procura il rapido precipitare degli avvenimenti, ritorniamo nel campo della più simpatica farsa. Silvia Frigato, infine, è una Mirandolina dalla vocalità educata ma esile e dalla caratterizzazione corretta e un po’ scolastica.
Tutti i cantanti vanno accomunati in un unico applauso per la bravura con cui, senza rinunciare a nulla sul piano della caratterizzazione dei rispettivi personaggi, hanno seguito con il loro declamato il bravissimo maestro John Axelrod, che ha mantenuto la quadratura attraverso una concertazione dalla presa implacabile, pur non dimenticandosi delle diverse seduzioni di un’orchestrazione ricca di colori e di inventiva.
Alla pomeridiana cui si riferiscono queste note, caldo successo per tutti.
Adolfo Andrighetti