Mariella Devia, ovvero il belcanto come espressivita’
Ci vuole sempre coraggio, se non addirittura sprezzo del pericolo, per proporre oggi “Norma”. E la ragione è la stessa che la farebbe entrare di diritto nell’elenco delle dieci opere da salvare: in sintesi, l’equilibrio ideale raggiunto fondendo, con esito artistico sublime, la levigata perfezione neoclassica con il pathos dei sentimenti e l’angelico involo melodico. La base su cui costruire il capolavoro era rappresentata dal teatralissimo eppure elegante e poetico libretto del solito, geniale Felice Romani, che lo trasse dalla tragedia “Norma, ou L’Infanticide” di Alexandre Soumet, andata in scena con grande successo a Parigi solo pochi mesi prima della Norma belliniana, cioè nell’aprile 1831: a conferma di quanto viva fosse l’attenzione di Romani verso il teatro contemporaneo, specie quello francese.
Un’opera così bella, così perfetta, si regge su un equilibrio di pesi e contrappesi molto delicato, che è difficile raggiungere e invece fin troppo agevole alterare, per presunzione, insensibilità, pressapochismo. Ci sono opere, si pensi a quelle verdiane ma non solo, che presentano una struttura più robusta e resistono meglio agli attacchi di esecuzioni musicali o teatrali che ne tradiscono lo spirito; altre, invece, e le belliniane fra queste, che hanno bisogno di cure più attente, perché fanno di una fragilità lunare la cifra della loro sublimità.
Ma “Norma” è anche opera in cui il canto viene messo in risalto con un’evidenza tutta particolare, come ossatura portante del dramma. All’interno di questa vivida attenzione riservata all’uso della voce va ricondotto il problema del soprano in grado di risolvere adeguatamente la parte della protagonista. Perché Norma, fra ascendenze belcantistiche e fraseggio scultoreo, fra sacralità della sacerdotessa, passionalità dell’amante tradita, strazio di una madre che deve tenere nascosta la propria condizione, non si lascia afferrare facilmente; e, se si dà piena soddisfazione ad un aspetto della sua personalità vocale o drammatica, si rischia di non dare adeguato risalto agli altri.
Ma un soprano all’altezza dell’impegno per classe e caratura tecnica c’è e la Fenice ce lo ha proposto: è la gloriosa Mariella Devia, alla quale non faremo il torto di ricordare l’età, non solo perché è una signora, ma prima di tutto perché è un’artista di levatura storica, per cui il tempo che passa non fa che impreziosirne le qualità note, conferendo loro una patina ulteriore di prestigio e di fascino. Oggi Mariella Devia è l’incarnazione del belcanto piegato a fini espressivi, cioè usato come strumento per ricreare una dimensione spirituale ed estetica in cui i sentimenti sono manifestati e anche con intensità, ma secondo uno stile elevato, sublime, ordinato secondo canoni precisi. Eccola, dunque, con il miracolo di una vocalità adamantina, dal timbro eburneo, dalla emissione levigata di ammirevole pulizia, dalla tecnica magistrale che tutto le consente: messe di voce, filati, legato perfetto, continue variazioni dinamiche a rendere il fraseggio vario ed eloquente. Insomma, un incanto belcantistico al servizio del personaggio e del dramma.
Certo colpisce vedere questa classica artista esibirsi vestita da sacerdotessa di un culto animista africano all’interno dello spettacolo etnico immaginato da Kara Walker: multiforme artista figurativa afro-americana nota perché, con una notevole varietà di mezzi espressivi spazianti dalla pittura alla scultura, dà corpo al tema grande ed eterno dell’oppressione esercitata sui più deboli, come gli schiavi africani o le donne. Il suo stile inconfondibile si ritrova nella scenografia di questa “Norma”, ove si incrociano linee curve e rette secondo una concezione che fonde con eleganza astrattismo e richiami etnici, e ove sono riproposte quelle silhouette in bianco e nero alle quali l’artista deve molta della sua notorietà. Kara Walker, per questo suo debutto nel mondo dell’opera, ha quindi voluto usare un linguaggio a lei familiare, evitando esperimenti che avrebbero potuto metterla a disagio.
Il risultato ottenuto potrebbe essere paragonato ad un promettente cartone preparatorio, che però, proprio in quanto tale, lascia un’impressione di incompiutezza e di fragilità espressiva. I costumi, per esempio, forse sono stati riprodotti dalle fonti, non so, ma in un teatro occidentale risultano inadeguati, specie quelli della masse. Imbarazzanti, anche per chi le ha dovute indossare, le vesti dei feroci guerrieri armati di lancia, trasformati in una sorta di caricaturali drag queen. Ma è soprattutto la regia ad essere insufficiente, in quanto la conduzione dei cantanti non va oltre l’ovvietà, mentre le masse vengono schierate immobili e in file ordinate davanti alla platea. Ed è un peccato, perché il coro, istruito da Claudio Marino Moretti, canta da par suo e avrebbe meritato di essere valorizzato anche sul piano scenico.
Insomma, l’invenzione di trasferire “Norma” dalle foreste della Gallia invasa dagli antichi Romani ad un Paese africano occupato da una potenza europea durante l’espansione coloniale, corrisponde in pieno alla sensibilità culturale della Walker, che ha voluto giustamente ricreare in palcoscenico un universo di immagini e di atmosfere a lei congeniale. Ma non si può affermare che questa trasposizione di epoche e di culture, pur non priva di stimoli e di prospettive interessanti, alla fine porti qualcosa di nuovo all’interpretazione di “Norma”. Anzi, il capolavoro, forse proprio perché tale, sembra sgusciare indenne e indifferente nella sua superiore intangibilità dalla stretta di questo ennesimo tentativo di attualizzazione, collocandosi in quella dimensione del sublime alla quale la regia di Kara Walker non sembra ancora in grado di accostarsi.
Chi si dimostra sempre a proprio agio anche nell’ambientazione coloniale dello spettacolo è il mezzosoprano Roxana Constantinescu, la rivelazione di questa produzione. E’ un’Adalgisa di forte impatto scenico e vocale, femminile e trepida, fragile ma anche tenace come il personaggio richiede, grazie anche alla bella polpa dello strumento, al fraseggio vario ed intenso, alla dizione impeccabile, al sicuro controllo dei mezzi. Un’Adalgisa di alto livello, insomma, anche se non sempre corrispondente al modello belcantistico proposto dalla protagonista.
Fra le due donne formidabili si muove il Pollione di Roberto Aronica, perfettamente credibile e in parte, anche se talvolta potrebbe essere più morbido ed omogeneo nell’emissione. Ma nel complesso della prestazione l’artista si dimostra interprete intenso ed incisivo, non solo dotato di saldezza vocale e di squillo perentorio, ma anche capace di un pregevole canto sfumato nel finale.
Corretto ed autorevole l’Oroveso di Simon Lim, cui forse difetta soltanto l’ampiezza di cavata del basso autentico. A posto Anna Bordignon (Clotilde) e Antonello Ceron (Flavio).
Sul podio Daniele Callegari accompagna con attenzione la protagonista e si impegna, con validi risultati, nel valorizzare la componente per così dire sinfonica, oltre a quella vocale, della partitura. Nella memoria resta soprattutto il sublime concertato finale, condotto dal maestro con mano sicura e con effetto travolgente, attraverso il progressivo montare della tensione, fino al climax.
Alla fine successo pieno, pienissimo per tutti.
Adolfo Andrighetti