Al Malibran si celebra il matrimonio fra atonalità e comicità
Questa, per sommi capi, la vicenda dell’Azione musicale napoletana “Il medico dei pazzi” di Giorgio Battistelli, tratta, per mano dello stesso compositore, dalla commedia omonima di Eduardo Scarpetta. Ora la vediamo in prima italiana al Teatro Malibran, dopo che ha esordito in prima assoluta all’Opéra National de Lorraine di Nancy il 20 giugno 2014.
E’ una storia, questa, napoletana fino al midollo, avvolta dal profumo di caffè, impregnata di tutti gli umori e i ghiribizzi tipici di una città che sa improvvisarsi palcoscenico in un amen. Né poteva essere altrimenti, considerato che la vicenda uscì dalla fantasia del mitico Eduardo Scarpetta, il più importante attore e commediografo napoletano fra Ottocento e Novecento. Come non bastasse, a confermare la napoletanità verace della storia, giunse una riduzione cinematografica del 1954 con protagonista Totò e regista Mario Mattoli; e, poco dopo, una ripresa teatrale di Eduardo De Filippo.
Ma all’interno della farsa, che può divertire anche oggi in virtù del ritmo vorticoso che toglie il respiro, affiora inquietante ed intrigante il tema della pazzia - o se si preferisce della stravaganza e della diversità – che si vorrebbe esorcizzare identificandola e quindi assegnandole confini precisi, mentre invece si confonde con una normalità sempre più fluida e indeterminata, in uno scambio di ruoli incessante. Il fatto è che i clienti della pensione sembrano matti quando vengono fatti passare come tali da Cicillo, mentre in realtà sono persone normali; ma quando sono presentati all’inizio come normali, danno l’impressione di essere dei fuori di testa: un attore dilettante che gira truccato da Otello; uno scrittore che va in cerca di casi singolari (viene in mente Prosdocimo de “Il turco in Italia”...) perché si è impegnato con un giornale a buttar giù una novella al giorno; un direttore d’orchestra sbertucciato e cacciato dagli orchestrali...E naturalmente gli altri personaggi non sono diversi: la loro eccentricità è coperta da una patina di perbenismo borghese, ma traspare da ogni parola, da ogni atto, perché il reale che vivono sconfina di continuo nel surreale.
Giorgio Battistelli, compositore dal prestigioso curriculum e dalla riconosciuta sensibilità teatrale (sono ormai trentatré le sue opere messe in scena), con “Il medico dei pazzi” prova a rivitalizzare la gloriosa tradizione italiana dell’opera comica aggiornandola e adattandola ai linguaggi musicali odierni, in apparenza più versati ad esprimere la solitudine dell’uomo contemporaneo in una realtà con cui non è più in sintonia piuttosto che la sua capacità di guardare a quella stessa realtà con ironia. Ma Battistelli non si rassegna a questa visione: la sfida che affronta è quella di evitare l’autoreferenzialità di molta musica contemporanea per cercare, invece, la comunicazione con il pubblico, divertendolo e coinvolgendolo attraverso una trama tradizionale da commedia buffa napoletana riproposta mediante ciò che la ricerca musicale ha sperimentato ed acquisito fino ad oggi.
Battistelli concentra l’effetto comico in un tessuto orchestrale essenziale eppure variopinto nella sua atonalità, pronto a sottolineare con duttilità, come un commento canzonatorio, ogni momento della vicenda, a colorirla, ad esasperarne gli snodi in chiave buffa. Al canto – che si avvale di una grande varietà di mezzi espressivi - è affidato invece il compito fondamentale di raccontare la vicenda, di farla procedere facendo arrivare con chiarezza le parole al pubblico, che è il primo e vero destinatario dello spettacolo.
Il maestro Francesco Lanzillotta, che ha diretto anche la prima assoluta de “Il medico dei pazzi” a Nancy, è eccellente e convinto interprete della visione di Battistelli, dando pieno risalto, grazie anche alla sensibile e attenta collaborazione dell’orchestra del Teatro, agli effetti comici sparsi a piene mani nella partitura. E’ parso ottimo anche il lavoro svolto sui cantanti, tutti preparati e sicuri, a cominciare dal Felice di Marco Filippo Romano, sorta di spaesato Pappagone dal sapido rilevo teatrale e dall’apprezzabile resa vocale. Accanto a lui la Rosina di Damiana Mizzi, la Bettina/Carmela di Arianna Donadelli, la Concetta di Loriana Castellano, l’Amalia di Milena Storti, il Ciccillo di Sergio Vitale, il Michelino di Giuseppe Talamo, l’Errico di Maurizio Pace, il Luigi di Matteo Ferrara, il Raffaele di Filippo Fontana, il Carlo di Clemente Antonio Daliotti. Come sempre positivo l’apporto del coro del Teatro diretto da Claudio Marino Moretti, un gruppo sempre più disinvolto anche nella presenza in scena oltre che affiatato nella resa vocale.
E’ piaciuto anche lo spettacolo, simpaticamente e gradevolmente descrittivo, impaginato da Francesco Saponaro per la regia e le scene, con i costumi di Carlos Tieppo e le luci di Cesare Accetta. Nulla di allusivo o di simbolico, in questo caso, ma soltanto la pulita, vivace descrizione di un ambiente – quello della Napoli del boom economico fra anni cinquanta e sessanta del secolo scorso – in cui il contrasto fra la città e il borgo non era ancora risolto. Non va dimenticato, infatti, che una componente comica non secondaria della vicenda è rappresentata dall’imbarazzo e dall’inadeguatezza di Felice, che viene dalla campagna, quando si trova immerso nella vorticosa metropoli. E accanto alla felice descrizione di ambiente, la puntuale caratterizzazione dei personaggi, sempre in bilico fra realismo e rimando alla commedia dell’arte. E’ un’impostazione teatrale in piena sintonia con quella musicale: entrambe puntano a farsi capire e a divertire, sul presupposto che il teatro, compreso quello in musica, è una realtà che si rivolge per sua natura ad un pubblico, col quale deve comunicare.
Il palcoscenico, organizzato su due piani sovrapposti, permette lo svolgersi contemporaneo di due azioni differenti anche se complementari. E pure l’entrata e l’uscita dei vari personaggi, punto nodale di ogni commedia teatrale perché ne riceva il ritmo incalzante necessario al succedersi delle situazioni, è sbrigato con la necessaria sincronia. E gli impeccabili costumi, ispirati ad una eleganza borghese tanto pretenziosa quanto vagamente ridicola, danno un aiuto prezioso nel ricreare l’atmosfera di una Napoli colorita e ricca di una vitalità quasi spudorata perché sostenuta anche dalle aspettative create dalla crescita economica.
Alla serale cui si riferiscono queste note, successo di stima da parte di un pubblico che non ha disertato il teatro nonostante il titolo fuori repertorio (meno male!) ma che ha reagito alla proposta con una certa freddezza.
Adolfo Andrighetti
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