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Aquagranda e Grande Teatro alla Fenice

14/11/2016
Aquagranda e Grande Teatro alla Fenice Coraggiosa ed esemplare la scelta compiuta dalla Fenice di inaugurare la stagione 2016-2017 con un’opera nuova commissionata proprio per questo appuntamento. Coraggiosa perché è prassi di tutti i teatri andare sul sicuro per l’apertura di stagione, allo scopo di non comprometterne o almeno condizionarne il proseguimento con un esordio poco felice. E coraggiosa anche perché l’incarico della composizione è stato affidato ad un musicista praticamente alla sua prima esperienza teatrale.

Ma scelta esemplare, nello stesso tempo, e non solo per le ragioni che la rendono coraggiosa, e cioè perché aperta verso la concezione dell’opera come un genere che diviene e si rinnova, non solo che ripete se stesso. Soprattutto perché, portando in palcoscenico un fatto realmente accaduto e ancora profondamente inciso nella sensibilità e nel ricordo dei veneziani, conferma il ruolo centrale che può e deve esercitare il teatro quale luogo di sintesi e di rielaborazione culturale delle vicende di una comunità. Tali vicende, infatti, specie se cariche di una forte valenza emotiva e simbolica, nel momento in cui diventano arte attraverso la rappresentazione musicale e teatrale vanno oltre la loro connotazione storica per esprimere un significato profondo ed universale che diventa patrimonio indelebile di tutti.

I fatti che hanno portato “Aquagranda” sul palcoscenico della Fenice sono ormai noti, perché oggetto di un’ampia ed opportuna divulgazione da parte dei mezzi di informazione. L’origine dell’opera va fatta risalire a quel 4 novembre 1966 in cui Venezia e tutta la laguna furono sconvolte da un’acqua alta che raggiunse i due metri di altezza: un fatto che ancora adesso rimane nella memoria diretta o mediata degli abitanti come un’esperienza epocale, di quelle che pongono drammaticamente l’uomo di fronte alla propria debolezza e alla forza della natura, ma nello stesso tempo gli consentono di scoprire la propria identità più profonda ed autentica nella relazione aperta ed oblativa con il prossimo, nel sostegno reciproco, nella condivisione della fatica e della sofferenza.

Sulla scia di quell’onda fisica, psicologica ed umana si muove il giornalista Roberto Bianchin, che, frequentando il ristorante di un protagonista di quel 4 novembre, il pellestrinotto Ernesto Ballarin, ne raccoglie ricordi ed impressioni, per farli confluire poi in un libro del 1996, dal titolo “Acqua Granda, il romanzo dell’alluvione”. Dal libro all’opera lirica il passaggio è ardito ma non impossibile. Se ne assumono la responsabilità Cristiano Chiarot e Fortunato Ortobina, i quali decidono di ricordare il cinquantesimo anniversario dell’evento mettendo in scena alla Fenice un’opera che, riportandolo alla memoria, nello stesso tempo gli attribuisca il valore di un’esperienza costitutiva dell’identità e dello spessore morale della città.

La scelta è quella di operare nei limiti del possibile con artisti veneziani o che almeno facciano riferimento a quell’area in virtù di ragioni geografiche e culturali: non per campanilismo, precisa Chiarot, ma per valorizzare nella produzione artistica una sensibilità che solo chi ha vissuto con immediatezza quel 4 novembre in laguna può aver maturato. Per la redazione del libretto viene naturale partire da Roberto Bianchin, che ne fissa le linee generali riguardanti la trama e i personaggi, modellate poi secondo le esigenze della poesia e della musica da Luigi Cerantola. Ne esce un testo che fotografa gli avvenimenti narrati da Ballarin con precisione cronachistica a partire dall’ambientazione a Pellestrina, conservando nomi ed età dei protagonisti reali ed usando il dialetto, viene precisato, non come strumento di un facile folclore, ma come la voce vera di un popolo drammaticamente provato. Inoltre il nostro dialetto è un linguaggio che, con la sua naturale musicalità, aiuta la composizione più dell’italiano; lo dice l’autore della musica, il trevigiano di studi veneziani Filippo Perocco.

La responsabilità della messa in scena, né poteva essere altrimenti, spetta al genius loci Damiano Michieletto, affiancato dai suoi collaboratori storici Paolo Fantin per le scene e Carla Teti per i costumi, cui si aggiungono il light designer Alessandro Carletti, Chiara Vecchi per i movimenti coreografici, Carmen Zimmermann e Roland Horvath per i video, Davide Tiso per la regia del suono e live electronics. Alla guida della parte musicale Marco Angius, da circa un anno direttore artistico dell’Orchestra di Padova e del Veneto e soprattutto interprete del repertorio contemporaneo di comprovata esperienza e capacità.

Non era certo facile ricavare, da una vicenda reale di acqua, fango e paura, una proposta convincente sul piano teatrale, evitando i rischi opposti dell’astrattismo disincarnato, che collocherebbe in una dimensione puramente cerebrale una storia di uomini, e dell’illustrazione realistica, inevitabilmente inadeguata rispetto all’evento da rappresentare e quindi a rischio del ridicolo. Michieletto e collaboratori riescono nell’impresa, rimanendo in equilibrio perfetto sul difficile crinale fra realismo e allusione simbolica e dando vita così ad uno spettacolo evocativo e commovente, essenziale ed originale, semplice e mai banale.

C’è una grande vasca, che occupa in lunghezza l’intero palcoscenico e funge da fondale davanti al quale si svolge tutta la vicenda. E’ questa vasca-parete il centro strutturale della messa in scena: mentre si colma lentamente ma inesorabilmente di acqua a simulare il crescere implacabile della marea(La cresse, la cresse, ripete sgomento Fortunato, il protagonista) e poi scarica in palcoscenico il proprio liquido contenuto a rappresentare la breccia aperta quel giorno nei murazzi di Pellestrina dalla spinta impressionante delle acque. Ma anche quando diventa lo schermo su cui vengono mostrati dei video, alcuni realistici, a proporre scene quotidiane della gente alle prese con l’acqua alta del 4 novembre 1966, altri delicatamente ma anche drammaticamente allusivi al rapporto ora armonioso ora conflittuale dell’essere umano con l’elemento liquido. Questi ultimi sono affidati ad una bravissima figurante, che, immersa nell’acqua, interagisce con essa ora accarezzandola, ora domandola, ora subendola.

La vasca-parete è anche l’elemento che definisce lo spazio scenico, punto di riferimento e limite per l’azione. Questa è affidata ovviamente ai cantanti solisti - dei quali viene evidenziata l’umanità così come si manifesta senza difese e senza forzature retoriche – ma anche alla sempre appropriata e pertinente presenza di mimi uomini e donne, anch’essi impegnati in un rapporto-confronto continuo con l’acqua sin da quando comincia a crescere all’interno del contenitore e ovviamente in modo ancora più diretto quando invade tutto il palcoscenico. Il coro, collocato ai due lati del golfo mistico in due sezioni separate (a sinistra le donne e a destra gli uomini), non partecipa fisicamente all’azione ma, pur limitandosi ad accompagnarla e a sottolinearne i momenti salienti, ne è parte integrante attraverso una presenza sonora di grande efficacia drammatica e di straordinario impatto emotivo. All’esito felicissimo dello spettacolo contribuiscono il suggestivo light design e i costumi perfettamente adeguati allo stile narrativo, atemporali nella loro essenzialità quelli dei mimi, intonati all’epoca dei fatti quelli dei cantanti solisti.

Il linguaggio musicale di Filippo Perocco, ricercato al punto da risultare di tanto in tanto rarefatto per lo meno all’orecchio dei non specialisti, è però particolarmente adatto a creare quell’atmosfera di tensione sospesa, di attesa angosciosa, che è indispensabile per accompagnare e sostenere il racconto dei fatti; anzi, di tale racconto diventa parte costitutiva, alternando un procedere sonoro aspro, difficile, non gratificante, a momenti di ampio respiro di indubbia comunicativa. Difficile immaginare un linguaggio sonoro diverso per raccontare in maniera adeguata questa vicenda in cui l’uomo si confronta faccia a faccia con gli elementi naturali. Meno significativa è parsa la parte cantata, affidata ad uno sprechgesang che alla lunga può risultare monotono soprattutto nella continua iterazione dei vocaboli, seppure in parte giustificata sul piano drammatico dalla concitazione con cui i personaggi vivono le vicende di cui loro malgrado sono protagonisti. Particolarmente riusciti e coinvolgenti gli interventi corali, di grande suggestione e forza evocativa per la compenetrazione fra suono e parola. E a proposito di parola, il libretto non manca di efficacia nel suo procedere a frammenti verbali, ad esclamazioni spezzate, piuttosto che per arcate ampie di frasi, ma qualche volta scivola in un eccesso di allitterazione che può risultare stucchevole.

Fra gli interpreti, tutti bravissimi, spicca per qualità vocali e immedesimazione nella parte il poderoso basso profondo Andrea Mastroni, Fortunato di grande spessore umano anche se di una ruvidezza talvolta fin troppo esibita. Accanto a lui va segnalato il soprano Giulia Bolcato, Lilli dalla luminosa, limpida vocalità. Gli altri, da accomunare in un’unica lode, sono l’Ernesto del tenore Mirco Guadagnini, la Leda del mezzosoprano Silvia Regazzo, il Luciano del basso-baritono William Corrò, il maresciallo Cester del tenore Marcello Nardis, il Nane del baritono Vincenzo Nizzardo.

Superiore ad ogni elogio lo splendido coro della Fenice guidato da Claudio Marino Moretti.

Da apprezzare in toto il gesto chiaro e preciso con cui Marco Angius ha guidato dal podio l’ordinato svolgersi della rappresentazione, confermando la ben nota propensione per il repertorio contemporaneo.



Alla serale cui si riferiscono queste note il pubblico, che gremiva il teatro in ogni ordine di posti, ha tributato un successo caldo, affettuoso e partecipe a tutti gli artefici dello spettacolo.

Adolfo Andrighetti

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