Viva Verdi: e viva “Attila!
Il mio ricordo personale, invece, va alla precedente messa in scena dell’opera, nella stagione 2003/2004, quando, ancora relegati nell’indispensabile ma anche deprimente Palafenice al Tronchetto, ascoltavo con un pizzico di commozione la cabaletta in cui Foresto si esalta ed esalta i profughi di Aquileia immaginando una pronta rinascita della “cara patria” “qual risorta fenice novella”. Come non associare, infatti, a quelle parole, rese più intense dalla forza emotiva del canto, il pensiero della Fenice, il nostro amatissimo teatro, cara patria della cultura e dello spirito, andato distrutto nell’incendio del 1996 e di cui si attendeva la rinascita come quella del mitico uccello da cui prende il nome?
Ma “Attila” è anche una delle opere più riuscite di Verdi, che tale la considerava, in cui la potenza infuocata dell’ispirazione, capace di esiti travolgenti per l’energia primigenia che ne sprigiona, sa aprirsi all’austera eppure maestosa descrizione dell’alba a Rio Alto dopo l’uragano; e si stempera in oasi di una dolcezza estatica e quasi sospesa nell’aria di Odabella “Oh! Nel fuggente nuvolo”, dalla strumentazione ricercata. A conferma che questo è un capolavoro, non un lavoro di transizione verso esiti più compiuti.
E una certa semplicità dei mezzi tecnici adoperati, da un lato è più apparente che sostanziale, come Riccardo Muti non si stanca di ribadire a proposito degli accompagnamenti verdiani, brutti perché spesso male eseguiti; dall’altro appare cercata e voluta, nel tentativo riuscito di esprimere musicalmente l’ambientazione bellicosa e a tratti selvaggia in cui si svolge la vicenda.
“Attila” è anche l’opera il cui protagonista è un personaggio complesso e contraddittorio, un guerriero violento e sanguinario eppure ingenuo come un bambino, destinato a soccombere di fronte ad una civiltà per lui troppo complicata. Di questa civiltà fa parte la Chiesa cattolica, con il solenne ed evocativo corteo guidato da papa Leone, davanti al quale il barbaro trema di timore superstizioso. Ma ne fa parte anche l’abitudine al raggiro e alla doppiezza, con la quale i più evoluti Ezio, Odabella e Foresto hanno facilmente ragione, tanto sul piano personale quanto su quello politico, di Attila, che crede ancora nella lealtà e nel rispetto della parola data.
Sul palcoscenico della Fenice si vede un nuovo allestimento, frutto della collaborazione del teatro veneziano con il Comunale di Bologna e il Massimo di Palermo, per la regia di Daniele Abbado, scene e luci di Gianni Carluccio, costumi dello stesso Carluccio e di Daniela Cernigliaro, movimenti coreografici di Simona Bucci. Ma l’esito non è soddisfacente, perché la scena fissa (forse la stiva di una nave, comunque uno spazio chiuso quasi vuoto salvo per qualche struttura nello stile oggi di moda a mezzo fra lo scenario di guerra e il capannone industriale in disfacimento) è di una bruttezza programmatica e non dà respiro alla vicenda, non la descrive né la presenta nelle sue componenti simboliche: risulta piuttosto estranea ad essa, come giustapposta a forza.
La regia, poi, è una presenza impalpabile o indecifrabile, fra il coro sempre schierato in ordine davanti alla platea e i pochi, scontati movimenti degli interpreti. E quando si fa viva, è per aggiungere dei particolari superflui, che in nulla giovano alla drammaturgia: i prigionieri maltrattati nel Prologo, i cadaveri degli annegati durante la fuga da Aquileia e lo sbarco a Rio-Alto portati in scena avvolti in bende come mummie, Attila che viene giustiziato (o assassinato?) da Odabella dopo che gli sono state immobilizzate le braccia con delle funi calate dall’alto.
Anche in questo spettacolo, come in molti altri, l’attualizzazione della vicenda - spostata in un’epoca contemporanea dove gli Unni, a detta del regista, possono essere siriani o afgani e i romani fanno parte di truppe internazionali come quelle dell’ONU - non serve a conferire vitalità ed originalità ad uno spettacolo che risulta anonimo e privo d’anima, apparentemente frutto di un impegno portato a termine con professionalità ma con scarsa convinzione. E ciò senza tener conto delle innumerevoli incongruenze che scelte registiche di questo tipo fanno inevitabilmente registrare rispetto al libretto e alla vicenda originale: ma ormai chi ci fa più caso? Più puntuali e pertinenti sono le luci, ma certo da sole non bastano.
Alla fine si conferma l’impressione che questo non sia il modo per rinnovare il melodramma romantico e restituirgli interesse agli occhi di un pubblico abituato ad ogni genere di intrattenimento. Non sono i cappottoni e i baschi dei guerrieri romani né le tute mimetiche degli unni – trovarobato militare trito e ritrito buono ormai per ogni epoca ed ogni stile – che possono aiutare l’opera a rendersi comprensibile ed accattivante; ma, invece, amore per ciò che si deve mettere in scena, accompagnato dalla capacità di dare risalto teatrale a quei contenuti umani che non appartengono ad epoche definite ma sono universali.
Sicuramente più riuscita la parte musicale, grazie ad un direttore consapevole della validità della partitura e ad una compagnia di canto giovane e motivata. Il maestro Riccardo Frizza è giustamente convinto che “Attila” “non rappresenti solamente una fase di transizione del percorso compositivo di Verdi” ma presenti delle novità musicali di cui è necessario mettere in evidenza il valore e le peculiarità estetiche. E ci riesce perfettamente, grazie ad un’interpretazione sempre appassionante e a tratti perfino entusiasmante, che sa “raccontare” musicalmente la vicenda con intensità emotiva, partecipazione, vitalità, comunicativa, e un suono bello, pieno, rotondo.
Il protagonista, Roberto Tagliavini, rappresenta, almeno per chi scrive, una sorpresa piacevolissima. La voce è educatissima, intonatissima e ben impostata, di bel timbro e di un bel colore caldo e brunito, usata con apprezzabile sensibilità di interprete per esprimere in maniera particolarmente convincente soprattutto l’umanità ferita e alla fine sconfitta dell’eroe. Quindi ad un eccellente racconto del sogno segue una cabaletta più normale, perché lo strumento ha dei limiti di volume e di potenza e non permette di sparare cannonate, come si rende evidente nella puntatura conclusiva. Ma che importa quando ci sono sia la voce sia l’interprete e l’una sostiene l’altro e viceversa nel donarci un Attila di classe e di gusto moderno e raffinato?
Odabella è un’artista che ormai deve considerarsi una presenza di primo livello nel mondo dell’opera: il soprano coreano Vittoria Yeo, già molto ammirata ed applaudita, almeno dal sottoscritto, in una recente “Madama Butterfly” sempre alla Fenice. Anche questa volta si assiste ad un miracolo, perché per gran parte dello spettacolo l’artista è semplicemente perfetta ed entusiasma per un’interpretazione cui non manca nulla: tecnica agguerrita, saldezza vocale senza la quale il ruolo non è avvicinabile, espressività e sensibilità nel canto, omogeneità di emissione, forza e penetrazione nell’acuto. Ma qualche segnale di stanchezza avvertibile nel finale fa pensare che il ruolo non sia (ancora) consigliabile per l’ugola preziosa di Vittoria Yeo, che forse potrebbe essere più prudente nella scelta del repertorio.
Connazionale del soprano (e concittadino, sono entrambi di Seoul) è il baritono Julian Kim, Ezio dalla voce e dal piglio decisamente verdiani. La prima si espande nel cantabile libera e sicura su tutta la gamma, piena e robusta, sostenuta da un ottimo legato. Il secondo si evidenzia soprattutto nell’accento veemente e giustamente enfatico, che non ha bisogno, però, di essere ulteriormente caricato alla ricerca dell’effetto, perché la bella linea di canto che sa mantenere l’artista potrebbe scapitarne e sarebbe un peccato.
Il rumeno Stefan Pop, rumorosamente acclamato dal pubblico, non manca certo di doti, fra cui il bel timbro tenorile e l’accento che sa farsi fremente, incandescente, quando la parte lo richiede. Eppure qualcosa nella sua organizzazione vocale forse andrebbe rimesso a punto, proprio perché questo bel patrimonio venga valorizzato come merita: il passaggio di registro, per esempio; e l’emissione, che dovrebbe essere più controllata soprattutto nel gioco delle variazioni dinamiche. Anche gli acuti suonano talvolta contratti, schiacciati, da rivedere nell’impostazione.
Eccellenti per il rilevo vocale conferito alle parti rispettive, il tenore Antonello Ceron come Uldino e il basso Mattia Denti come Leone.
Per concludere, l’ormai abituale riconoscimento all’eccellenza del coro della Fenice condotto da Claudio Marino Moretti e la segnalazione, alla pomeridiana cui si riferiscono queste note, di un successo ai limiti dell’entusiasmo per tutti gli artefici dello spettacolo.
Adolfo Andrighetti