Fenice: violenza nel "Tannhäuser" o violenza sul "Tannhäuser"?
La vicenda, per la quale Wagner attinge come suo solito a fonti leggendarie di epoca medioevale, narra infatti del cantore Tannhäuser dibattuto fra due diverse concezioni dell’amore, cui corrispondono opposte visioni della vita: l’amore inteso paganamente come puro piacere, come edonistica ebbrezza dei sensi, incarnato da Venere; e l’amore sublime che, secondo la visione cristiana, proviene da Dio e a Dio rimanda, rappresentato da Elisabeth. Tannhäuser è conteso dalle due figure femminili: la prima, simbolo di quelle possenti forze naturali che, se non riferite a Dio, possono privare l’uomo della sua libertà; la seconda, simbolo di un amore che non esclude la carnalità ma non la ritiene fine a se stessa, bensì la vede come parte di un ordine superiore.
L’intera opera è percorsa dallo sforzo che Tannhäuser compie per liberarsi dal dominio di Venere e per redimersi, cioè per confermare la propria appartenenza ad Elisabeth e al mondo supero che la ragazza rappresenta e che fa del riferimento a Dio il senso di ogni dimensione umana, secondo la sensibilità di quel Medio Evo nel quale l’opera è ambientata. Ma il tentativo, più volte e quasi disperatamente ripetuto, in sé è inane: l’uomo non si salva per un atto di volontà. Contrariamente a ciò che cantano i pellegrini nel loro coro sublime, penitenza e pentimento non bastano per la redenzione. Occorre anche una grazia, un atto gratuito di misericordia, che accolga il peccatore e lo riconcili con se stesso e con Dio.
Così, Tannhäuser abbandona Venere per il tedio di una vita sazia eppure priva di libertà, ma finisce per esaltare la dea durante la tenzone fra i cantori. Di nuovo pentito, si unisce ai pellegrini che si recano a Roma, ma il pontefice gli nega l’assoluzione. Quindi il giovane torna a vagare alla ricerca di Venere. Solo il sacrificio con cui Elisabeth dona la propria vita alla Madonna con l’intenzione della salvezza di Tannhäuser, potrà ottenergli la redenzione; solo un atto definitivo d’amore, espressione e conseguenza di quello compiuto da Cristo sulla croce, potrà rinnovare il miracolo della salvezza. E la morte di Tannhäuser sulla bara di Elisabeth non è un segno di sconfitta, ma, al contrario, la conferma che tutto è compiuto e la vita, salvata in Cristo, ha raggiunto così la propria realizzazione.
Questo è “Tannhäuser, come oggettivamente si presenta in base a ciò che Wagner ha scritto e composto. Ma di tutto questo non c’è traccia nello spettacolo messo in scena dalla Fenice in coproduzione con l’Opera di Anversa e il Teatro Carlo Felice di Genova; spettacolo dovuto a Calixto Bieito (regia), Rebecca Ringst (scene), Ingo Krügler (costumi), Michael Bauer (luci). Si è visto, invece, un abisso di violenza e di disperazione, privo di ogni barlume di luce. La redenzione, voluta e cantata da Wagner, è stata semplicemente ignorata. Quest’intervento di rimozione comporta, in “Tannhäuser”, annullarne l’essenziale nucleo drammatico, che consiste del conflitto vissuto dal protagonista fra peccato e grazia, fra paganesimo e cristianesimo, in una tensione che esprime l’essenza dell’umanità ferita e che anticipa la sofferenza di Amfortas in “Parsifal”. Ma se le due protagoniste femminili dell’opera, invece che rappresentare concezioni opposte dell’amore e della vita, sono due donne qualsiasi fra le quali il protagonista è dibattuto, il dramma ne esce banalizzato, appiattito nei contenuti e affievolito nella forza di coinvolgimento. Insomma, si mette in scena Wagner per negarlo.
Inoltre, la regia non solo ignora gli infiniti richiami alla redenzione contenuti nel libretto e ripresi nella partitura, ma li sostituisce con un bagno di violenza e di sesso. Questa è la vita, sembra dirci Bieito, e da lì non si sfugge: nessuno ci salva, nessuno ci libera. Ma una simile visione, se trova puntuale riscontro in “Carmen” di cui il regista spagnolo ci ha offerto una bellissima interpretazione che a breve tornerà sul palcoscenico della Fenice, è vistosamente contraddetta in “Tannhäuser”, ove si racconta esattamente il contrario: e cioè che la redenzione è possibile, attraverso il sacrificio oblativo di una persona innocente.
Da questa incongruenza di fondo derivano tutte le altre di cui è disseminato lo spettacolo e alle quali si assiste ora con sbigottimento, ora con divertimento, ora con indifferenza. La scena del Venusberg, ambientata in una foresta di alberi capovolti che scendono dall’alto, passa senza danni, anche in virtù della riuscita caratterizzazione che viene data della dea come di una selvaggia creatura dei boschi, in sensuale comunione con la natura. Ma poi...
Poi c’è la corte del Langravio e dei cantori ridotta ad una congrega di violenti debosciati, dediti a selvaggi e sanguinari riti di iniziazione. Li ritroviamo nel secondo atto, che si svolge attorno ad una loggia di elementare semplicità architettonica. Si presentano ottusamente violenti, chiusi in un loro mondo dominato da una ritualità tanto incomprensibile quanto rigidamente rispettata, con l’aggressività e la sopraffazione quali unici elementi di aggregazione. Impressionante (e immotivata) la violenza parossistica con cui sollecitano Tannhäuser al pellegrinaggio a Roma, percuotendo selvaggiamente il suolo con dei rami frondosi: segno visivo e sonoro di un mondo senza speranza, che, quando condanna, distrugge, annichilisce, senza concedere catarsi.
E c’è un Wolfram ambiguo, dall’identità liquida come oggi si direbbe. Nel terzo atto (scenicamente una sintesi dei primi due, con i pilastri della loggia che si alternano agli alberi capovolti), il pio personaggio voluto da Wagner tenta di strangolare Elisabeth sulle note del solenne, sublime tema dei pellegrini. E c’è una Elisabeth raffigurata come una creatura distrutta, priva di ogni dignità, oggetto di manesche attenzioni sessuali da parte dei cantori e poi appiccicata a Wolfram per averne affetto e altro ancora, nonostante questi abbia tentato di strangolarla. Ci sono i pellegrini, che, ad onta del perdono ricevuto, appaiono alla fine dell’opera come una massa strisciante, tremante ed angosciata, con un effetto teatrale efficacissimo ma del tutto estraneo a quanto si ascolta e si sente.
E qui è il caso di fermarsi, perché l’elenco di trovate fini a se stesse (e spesso gratuitamente volgari) sarebbe lungo. Va riconosciuto, comunque, al regista un robusto e vivace talento teatrale, con cui riesce a calare efficacemente la vicenda in una atmosfera inquietante e sinistra, dominata dalla tensione e dall’angoscia; sentimenti rafforzati dai costumi di epoca contemporanea, squallidi ed anonimi anche quando vorrebbero essere eleganti, come durante la tenzone canora.
Giunto a questo punto, mi rendo conto di essere caduto nella trappola di prestare fin troppa attenzione alla messa in scena perché ostentatamente provocatoria, rischiando cosi di non concedere lo spazio dovuto alle scelte musicali; a cominciare da quella di rappresentare il primo atto nella versione di Parigi del 1861, che presenta una nuova versione ampliata delle due scene del Venusberg, e gli atti secondo e terzo, invece, nella versione di Dresda, risalente alla prima assoluta del 1845. E’ un’opzione filologicamente corretta? Si lasci ai musicologi l’onore e l’onere di rispondere, ma certo il problema, al di là delle sbrigliate fantasie di Bieito, va posto.
Per il resto, splendida l’esecuzione guidata dal maestro israeliano Omer Meir Wellber, capace, con la collaborazione dell’orchestra della Fenice in forma eccellente, di “raccontare” musicalmente con acuta sensibilità e grande coinvolgimento emotivo, nonché di restituire la lussureggiante partitura in tutta la sua straripante ed impressionante bellezza sonora. Insomma, si può affermare che il direttore sia riuscito a realizzare in pieno quanto si era ripromesso: di affrontare quest’opera, cioè, con “uno sguardo d’insieme molto esteso”, per “trovare il giusto equilibrio tra ogni piccolo dettaglio ed uno sguardo complessivo”. Ancora una volta, quindi, si conferma che, nell’opera, la drammaturgia, prima ancora che dalla messa in scena, è realizzata dalla musica e dal canto, cui soprattutto si deve la descrizione delle atmosfere e degli stati d’animo.
Anche il cast nel complesso si è rivelato all’altezza. Alla domenicale cui si riferiscono queste note, il tenore irlandese Paul MacNamara ha sostituito nel ruolo del protagonista l’indisposto (ma anche poco apprezzato alla prima) Stefan Vinke, riuscendo ad essere un Tannhäuser lirico e limpido, vocalmente adeguato, anche se di scarso impatto attoriale. Brave e convincenti sotto ogni profilo, invece, le due protagoniste femminili: la Venere del soprano lituano Ausrine Stundyte, presenza forte, anzi imperativa, sia vocalmente sia scenicamente; e la straziata, disperata Elisabeth del soprano lettone Liene Kinča, bella voce wagneriana di notevole impatto drammatico e capace di spiegarsi impavida sopra i marosi dell’orchestra.
Nella compagine maschile si è imposto il Wolfram del baritono tedesco Christoph Pohl, dalla emissione omogenea accompagnata da sonorità morbide e sfumate, che giovano molto alla liricità della parte. Per l’insufficiente presenza di doti analoghe, risulta invece perfettibile il Langravio Hermann del basso estone Pavlo Balakin. All’altezza delle parti loro assegnate tutti gli altri: Cameron Becker (Walter), Alessio Cacciamani (Biterolf), Paolo Antognetti (Heinrich), Mattia Denti (Reinmar).
Straordinario per omogeneità e ampiezza sonora l’apporto del coro della Fenice diretto da Claudio Marino Moretti. Da apprezzare ed incoraggiare in toto la presenza di una realtà completamente “nostra” come il Kolbe Children’s Choir del Centro Culturale padre Kolbe di Mestre, i cui componenti si sono cimentati nelle parti soliste del giovane pastore e dei quattro nobili giovani; merito anche del fondatore e direttore del coro, il maestro Alessandro Toffolo, che ha istruito le voci bianche nella maniera adeguata per metterle in grado di sostenere gli impegnativi ruoli wagneriani, accompagnandole anche durante le prove e le recite.
Molto caloroso il successo di pubblico, con sonori dissensi nei confronti dello spettacolo ma solo al termine del primo atto.
Adolfo Andrighetti
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