Al Malibran un garbato Cilea ventiduenne
Passano due anni. Ubaldo si è voluto arruolare comunque, per spirito patriottico. Arriva il momento del suo ritorno a casa ed egli vi giunge in compagnia di Giulio, che presenta come il suo comandante e colui che gli ha salvato la vita in battaglia. Fra Gina e Giulio è colpo di fulmine, ma la ragazza si ricorda dell’impegno assunto con lo sconosciuto benefattore che ha sostituito Ubaldo sotto le armi e, quando Giulio le confida di essere lui quella persona, non gli crede, perché il giovane non è in grado di restituirle l’anello. Infatti, trovandosi in punto di morte, lo ha affidato ad un commilitone. Ed ecco giungere, come un vero deus ex machina, il sergente Flamberge con l’anello, a confermare la versione di Giulio. E così la vicenda si può concludere come si deve e cioè con i due giovani che inneggiano al loro “casto amor”.
Questa è la trama di “Gina”, il “melodramma idillico” che Francesco Cilea compose nel 1889. Il libretto fu messo in versi stucchevoli e zuccherosi da Enrico Golisciani, che prese spunto dalla commedia “Catherine ou La croix d’or” di Nicolas Brazier e Mélesville. L’opera è il saggio conclusivo degli studi musicali compiuti dal ventiduenne e promettente compositore al Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli. Il Teatro La Fenice ci propone questo stuzzicante esordio dell’autore di “Adriana Lecouvrer” e “Arlesiana” in un nuovo allestimento, realizzato nell’ambito di “Atelier della Fenice al Malibran”: il progetto, giunto ormai all’ottavo anno di vita, che vede la proficua collaborazione del Teatro con l’Accademia delle belle Arti di Venezia. Anche in questa occasione gli studenti si sono occupati di scenografia, luci e costumi, mentre la regia è stata affidata alla solida professionalità e all’infallibile senso del teatro di Bepi Morassi: una sicurezza.
Questi asseconda i toni da commedia della trama, insaporendoli da un lato con pizzichi di ironia e di lieve comicità trattati con gusto e misura, dall’altro con qualche allusione drammatica, soprattutto di ispirazione guerresca. Merito precipuo della regia è proprio quello di mantenersi sul sottile crinale che, nelle opere di mezzo carattere come “Gina”, permette di non scivolare né nel dramma a tinte forti né nel comico esplicito, conservando un aureo equilibrio nel quale i diversi ingredienti della pièce non si contrappongono ma si fondono armoniosamente. Così, per citare i due punti estremi di una concezione registica di ammirevole saggezza e pulizia, alla buffa caratterizzazione del sergente Flamberge, ingrossato nel giro vita come un grottesco Falstaff in divisa militare, risponde specularmente la marcia dei reduci che laceri, feriti, barcollanti, attraversano la platea per raggiungere il palcoscenico: comunque un effetto teatrale onesto e di effetto sicuro.
Un’altra idea vincente della regia è quella di tenere insieme i due diversi ambienti in cui si svolge la vicenda, quello domestico e quello militare, facendoli scorrere su due piani diversi che tendono però a fondersi e a confondersi. Questa soluzione permette un agile e fluido passaggio da un livello all’altro, senza forzature e soluzioni di continuità. La scenografia asseconda con gusto ed intelligenza questa impostazione: così, la cortina di panni stesi ad asciugare si trasforma velocemente in un pavé di bandiere francesi. Appropriati i costumi, che rispettano l’epoca napoleonica in cui sono ambientati i fatti.
La musica di “Gina” è tenue, leggera, pastellata, debitrice dello stile francese. Non ha troppe pretese ma è aggraziata, a tratti elegante, con qualche momento di maggiore intensità e con i pezzi d’assieme strutturati in maniera solida ed abile, a conferma della serietà della formazione musicale impartita dal Conservatorio napoletano al giovane Cilea. La partitura trova nel Maestro Francesco Lanzillotta un interprete impeccabile, che restituisce con sensibilità quella leggerezza e quella scorrevolezza che egli stesso individua come caratteristiche precipue della musica. Lo assecondano validamente Orchestra e Coro, quest’ultimo istruito da Ulisse Trabacchin.
Il cast vocale è da lodare in blocco, perché riesce a conferire un po’ di vita teatrale ed un minimo di spessore drammatico a dei personaggi fragili come figurini di carta e friabili come biscotti. Gli applausi più convinti sono stati riservati, da un pubblico divertito e partecipe, alla Gina del soprano Arianna Vendittelli. Dalla sua una vocalità sopranile di accattivante freschezza, sostenuta da una tecnica impeccabile e da un impasto timbrico di seducente dolcezza, particolarmente adatto ai ruoli cui il suo strumento la destina. Sul palcoscenico, poi, è una presenza sicura e disinvolta, padroneggia il suo ruolo e lo propone con una professionalità di alto livello.
Ma si può dire bene anche degli altri: dell’Ubaldo interpretato da un Armando Gabba in ottima forma vocale, cui viene offerta l’occasione di mettere alla prova con successo le sue non trascurabili doti di artista intelligente ed affidabile; della Lilla di Valeria Girardello, giovane (è del 1992) contralto naturale, che, per la sicurezza con cui tiene il palcoscenico e le doti vocali già affinate, merita di essere sperimentata anche in altri ruoli; del Giulio interpretato dal tenore Alessandro Scotto di Luzio, dalla linea corretta ed elegante, anche se la ricerca di un’emissione un pochino meno rigida e più morbida sarebbe gradita; del sergente Flamberge del basso-baritono Claudio Levantino, bravo e simpatico, cui si richiederebbe soltanto, almeno in alcuni momenti e per essere perfetto, un volume di voce proporzionale alla buffa prosopopea del personaggio.
Adolfo Andrighetti