Due o tre cose che sappiamo di lui: Godard torna a Venezia
Il film “Deux ou tres choses que je sais d’elle” è uno dei più strepitosi che figurano nella lista dei Classici restaurati (Argos Films con il supporto di Centre National du Cinema et de l’image animèe). Girato nel 66, in contemporanea con ‘Made in Usa’ (infatti Godard avrebbe voluto che venissero proiettati insieme su due schermi paralleli) nel periodo in cui inizia la ristrutturazione urbanistica di Parigi. Infatti la ‘lei ‘del titolo altri non è che la città stessa. La ‘co-protagonista’ Marina Vlady funge da guida e metafora della città. Pur non avendo una trama, il film si snoda su situazioni e personaggi precisi. La giovane (storia reale ispirata da un’inchiesta di ‘Le nouvel observateur’) con marito e figlio, pur lavorando esercita la prostituzione per poter accedere a piccoli lussi, e lo dichiara in un’intervista (l’amoralità del capitalismo). Pare che la prostituzione venga accettata come un fatto normale e diffuso, tuttavia, mentre la donna dapprima nega la possibilità di un’alternativa, sprofondando nell’ineluttabilità della sua condizione, il regista fa sì che l’intervista agisca come un reagente facendone emergere le contraddizioni. Lei mostra di sapere perfettamente quello che può accettare e ciò che deve rifiutare, ma le azioni che compie sono scisse dal nucleo del suo essere. I suoi desideri provengono da un luogo recondito risultandole inesplicabili, i suoi sogni le danno l’impressione di andare in frantumi, ed i risvegli le procurano un senso di straniamento totale dal suo corpo. Questo tra tutti i film di Godard è certamente il più dedicato al tema del condizionamento di massa e delle trasformazioni sociali prodotte dalle nuove esigenze e dal nuovo modo di vivere. In alternanza scorrono infatti le immagini dei lavori in corso che porteranno al nuovo volto di Parigi, mentre una sequenza politicamente scorretta ci mostra Juliette che porta il figlio in un asilo nido che funziona come casa di appuntamento a ore: i clienti pagano il vecchio tenutario con prodotti inscatolati, cioccolata, biscotti, pasta e caffè; tutto esposto su di un tavolo come in un supermercato.
La pellicola, pervasa di arte concettuale, è in realtà una sorta di docu-dramma dove i protagonisti parlano di fronte alla macchina da presa, mostrando il proprio materialismo e pressapochismo con superficiali citazioni supponenti. Sebbene datata, la sagacia politica del regista sembra più attuale che mai. Qui il cinema per Godard, che aveva già sposato definitivamente le teorie marxiste, diventa il luogo ideale ove mettere in atto una severa critica della civiltà dei consumi e della mercificazione dei rapporti umani.
La celebre scena con il dettaglio di una sigaretta accesa nel buio è l’enunciazione di un’ipotesi di fallimento. (Ascolto la pubblicità sul mio transistor e dimentico Hiroshima, Auschwitz, il Vietnam). L’inquadratura finale sarà allora una nuova città finta, costruita su di un prato dove strade e caseggiati sono costituiti da scatole di prodotti di consumo come detersivi, alimentari, sigarette. ‘LEI’ è diventata totalmente un oggetto di mercato. Il film risulta pensato ed organizzato secondo un principio di reinvenzione che corrisponde allo slogan ‘sostituire l’immaginazione all’esame della realtà’; ma chiaramente per 'immaginazione ' il regista non intende l’evasione nell’irreale (non a caso gli inserti di una parte del film sono fotografie della guerra del Vietnam). Per Godard ‘immaginazione’ è la straordinarietà non passiva del riflettere, la ricerca non ipocrita della verità.
Mariateresa Crisigiovanni
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