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Deserto Rosso, omaggio ad Antonioni per Venezia Classici

03/09/2017
Deserto Rosso, omaggio ad Antonioni per Venezia ClassiciDieci anni fa moriva Michelangelo Antonioni, uno dei registi italiani più amati ed odiati di sempre. Critico e soggettista squattrinato nella Roma del dopoguerra, per sopravvivere aveva rubato bistecche, ottenendo solo nel 1950 un finanziamento per il suo primo lungometraggio “Cronaca di un amore”. VENEZIA 74 lo omaggia ora proiettando per Venezia Classici (magnificamente restaurato dalla Cineteca Nazionale e Istituto Luce) “Deserto Rosso” per il quale lo premiò, nel 64, con il Leone d’Oro.
‘‘Considero Deserto Rosso molto differente dai miei film precedenti. Non parla di sentimenti. Arrivo a dire che non vi hanno nulla a che fare”. E di che parla allora Deserto Rosso? Certamente di disagio dei sentimenti, ancora protagonisti a dispetto della dichiarazione del regista. Del resto Antonioni ha sempre prediletto la dimensione individualistica, il modo di vivere, piuttosto che l’indagine delle radici sociali. La sua coscienza creativa è più attratta dalla costante analisi degli stati mentali piuttosto che dai problemi e relative soluzioni. Insieme a Bergman e Godard ha ribaltato il mondo cinematografico, sovvertendo il tempo e lo spazio narrativo. Soprattutto dando voce e spicco alla figura femminile in un paese che da agricolo diventava industriale. Il suo intero lavoro, centellinato con 20 lungometraggi in sessant’anni, è denso di metafore visuali sulla solitudine, sulla alienazione, sulla definizione, abusatissima anche dal pubblico comune, della cosiddetta ‘incomunicabilità’.
Deserto Rosso, suo primo lungometraggio a colori, può essere considerato un’opera di verismo moderno. Siamo agli inizi degli anni 60, a Ravenna nella zona più industriale: industrializzazione selvaggia, profondamente negativa per la salute psicofisica dei cittadini, assolutamente non integrati nei nuovi stili di vita. Il complesso del Petrolchimico ha spazzato via ogni residuo di bellezza naturale. La città è ormai priva di qualsiasi identità: la macchina da presa alterna sequenze ossessive gialle e rosse ai colori plumbei delle vie della città. Il colore è per Antonioni un problema di forma, ma soprattutto di contenuto, in quanto il rapporto personaggio–ambiente si amplia proprio grazie al colore, che diventando a sua volta protagonista, è costruito e contemporaneamente costruisce analogie e situazioni oggettive. In questi cromatismi espressivi si aggira la protagonista, Monica Vitti, la stessa della cosiddetta ‘trilogia gialla’ (L’Avventura, La Notte, L’Eclisse). È affetta da turbe psichiche che inficiano la sua vita lavorativa e famigliare. Ci conviene ricordare la celebre battuta ‘Mi fanno male i capelli...’ (su cui ironizzarono il pubblico ed alcuni critici) in realtà citazione da una poesia di Amelia Rosselli.
La protagonista, Giuliana, è insofferente alla vita ed incapace di affrontare un’esistenza che considera inutile, al punto da compiere un sincero tentativo di suicidio. Vive una sorta di simmetria con l’ambiente che le sta intorno, ed i personaggi maschili non rappresentano alcuna salvezza: l’integrazione del marito si scontra col suo disadattamento ed il rapporto con l’amante, che rappresenta il tema della fuga (uno dei più ricorrenti in Antonioni), corrisponde ad un alibi e non alla salvezza.
Il film è da considerarsi come espressione di un modus vivendi dissociato e mette in crisi i valori di un costume e di una morale non più corrispondenti alla nuova realtà umana e sociale creata dalla società industriale e del benessere. L’ambiente costringe l’individuo a ripiegarsi su sé stesso impedendogli sia la profondità introspettiva che la capacità di riscatto nella ricostruzione di una nuova coscienza creativa. Secondo il regista una ‘assenza di futuro’ che va colmata con un auspicio di adattamento che è tentativo unico per il superamento delle nevrosi e contemporaneamente uno sforzo di accettazione.
‘C’è qualcosa di terribile nella realtà e nessuno me lo dice’ dichiara Giuliana in uno dei dialoghi più penetranti, lontano da immediate forme seduttive. Tuttavia il tentativo di superare la nevrosi equivale al recupero del mondo industriale disumanizzato, in cui si colloca coerentemente la dichiarazione di Antonioni a Godard: “È troppo semplicistico dire che io accuso questo mondo industrializzato dove l’individuo è schiacciato e condotto alla nevrosi. La mia intenzione invece era di tradurre la beltà di quel mondo, dove le fabbriche possono essere molto belle...”

Mariateresa Crisigiovanni

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