Cefalo e Procri: da Ovidio al palcoscenico del Malibran
La vicenda conosce, come spesso capita per queste narrazioni la cui origine si perde nella notte dei tempi, varianti diverse. Ma è il caso di seguire la versione classica narrata in versi da Ovidio nelle “Metamorfosi”, ove si racconta che Cefalo e Procri formavano una coppia felice fino a quando la gelosia non pretese dall’amore umano più di quanto potesse dare.
Infatti Eos, l’Aurora dalle rosee dita cantata da Omero, innamorata pazza di Cefalo, lo rapisce, ma, di fronte alla fermezza del giovane che intende restare fedele alla sposa, gli insinua il dubbio che quest’ultima, invece, sia di principi più laschi. Per dargliene conferma, lo trasforma in un’altra persona e lo convince a presentarsi a Procri con ricchi, allettanti regali. La giovane cede al fascino dello sconosciuto (e dei doni di cui è latore). Segue la riconciliazione, segnata dai due regali meravigliosi che Procri fa a Cefalo: una lancia infallibile e un cane velocissimo, in grado di raggiungere qualunque preda.
Poi tocca a Procri dubitare della fedeltà dell’amato. Questi, durante una battuta di caccia, viene sorpreso più volte ad invocare l’aura con sospiri e desiderio autentico. Procri non capisce che Cefalo vuole soltanto che la brezza venga a ristorarlo della calura e della fatica, e si abbandona ad un dolore inconsolabile. Cefalo scambia i lamenti della sposa per i versi di un animale da preda e la abbatte.
A questo episodio mitologico si ispira il dittico raffinato proposto dalla Fondazione del Teatro La Fenice.
Si inizia con “Eccessivo è il dolor quand’egli è muto”, prima esecuzione assoluta su commissione del Teatro: un brano per soprano e piccola orchestra tratto dal “Lamento di Procri” di Francesco Cavalli, ritoccato soprattutto nell’orchestrazione dalla compositrice romana Silvia Colasanti, classe 1975. Al Malibran il brano viene inserito fra due pezzi, solo orchestrali, della stessa Colasanti. Fra questi va evidenziata l’introduzione, affidata ad un linguaggio aspro e di inquietante forza emotiva.
“Eccessivo è il dolor quand’egli è muto” rispetta la versione del mito trasmessaci da Ovidio con la morte di Procri, che canta tutta la desolazione di una donna abbandonata a se stessa e alla propria solitudine. E’ differente, invece, la scelta operata nella seconda parte del dittico, l’opera da camera di Ernst Krenek “Cefalo e Procri” su libretto di Rinaldo Küfferle, in cui si preferisce regalare al pubblico un lieto fine, con il trionfo dell’amore fra i due giovani. Una soluzione della vicenda mitica che non può non influenzare il tono generale dell’opera, che tanto dal punto di vista musicale quanto da quello teatrale oscilla fra il serio e lo scanzonato, guardando il dramma dei due amanti con un tocco leggero ma persistente di distacco e di ironia.
Il lavoro di Krenek fu composto su incarico della Fenice e fu messo in scena per la prima ed unica volta al Teatro Goldoni di Venezia nel 1934, nell’ambito del terzo Festival internazionale di musica contemporanea. La sua ripresa ha non soltanto il significato di ripercorrere a ritroso un pezzo della storia culturale veneziana per ripresentarlo all’attenzione odierna; ma, prima ancora, quello di richiamare l’attenzione su di un musicista originale, eclettico e misconosciuto quale fu e rimane Ernst Krenek. Sulla sua singolarità si è soffermato in maniera particolare il maestro Tito Ceccherini, il quale ha ricordato come “Cefalo e Procri”, pur appartenendo al genere dodecafonico, nello stesso tempo lo sfugge, giocando fra tonalità e atonalità. Una musica caratterizzata da grande facilità e felicità inventiva, ha precisato Ceccherini, che, puntando anche sull’intrattenimento e la leggerezza, risolve la drammaturgia dell’opera, il che non riesce a fare il “pedante ed erudito” libretto di Küfferle.
La messa in scena di uno spettacolo così singolare, affidata al regista di prosa Valentino Villa per la prima volta alle prese con un’opera lirica, viene risolta puntando su di un impianto scenico minimalista, ideato da Massimo Checchetto con la collaborazione di Vilmo Furian per le luci: un fondale riquadrato al cui interno si apre un ulteriore spazio scenico, utilizzato per proporre dei tableaux vivant oppure delle scene montane. Ciò vale soprattutto per l’opera di Krenek, ché il pezzo precedente, frutto del singolare connubio fra il barocco Cavalli e la contemporanea Colasanti, non si presta ad una messa in scena di stampo narrativo, consistendo nell’assolo di un unico personaggio, Procri.
Ma è proprio nella resa di questa dimensione, più astratta, quasi disincarnata, in cui il senso di solitudine e di abbandono vissuto da Procri trova risonanza in una musica di intensa carica emotiva, che il regista mostra una mano meno felice. A che pro, per esempio, popolare il palcoscenico di personaggi mentre Procri canta il proprio strazio di donna derelitta? Il tentativo di realizzare in linguaggio teatrale una “atmosfera più rarefatta e che procede per visioni”, per citare le stesse parole di Villa, non sembra completamente riuscito.
Nell’opera di Krenek, invece, il regista rende con buona efficacia l’atmosfera da commedia frivola trasmessa soprattutto dai personaggi di Aurora e Diana, ma che non può non contagiare anche la vicenda di Cefalo e Procri, che rimane svuotata di spessore umano nel momento in cui è determinata dalla volontà capricciosa delle due dee. Queste sono viste come due prime donne volubili e litigiose, vestite elegantemente (riusciti i costumi di Carlos Tieppo), che trattano i due umani come cavie da esperimento. Non per niente si avvalgono, per la buona riuscita del loro passatempo, della collaborazione di asettici tecnici di laboratorio, che indossano avveniristiche tute protettive. Aurora e Diana litigano perché la prima sostiene che la vita umana è influenzata più dall’ardore che dalla ragione, mentre la seconda è convinta del contrario. Quindi decidono di mettere le rispettive teorie alla prova dei fatti, usando Cefalo e Procri, che portano costumi vagamente ispirati ad una arcaicità mitica, come cavie da laboratorio. Al termine della mezz’ora di spettacolo il risultato dell’esperimento è sintetizzato da Crono, il quale sentenzia, con equilibrio salomonico, che “ragione e fuoco presiedono alla vita in parte uguale”.
L’esecuzione musicale è affidata alla competenza ed alla acribia del maestro Tito Ceccherini, che si conferma insostituibile nel repertorio moderno e contemporaneo. Il cast lo asseconda con diligenza. Silvia Frigato mette a disposizione delle due Procri, quella di Cavalli-Colasanti e quella di Krenek, la propria vocalità levigata e stilisticamente inappuntabile, di ridotte dimensioni ma capace di aprirsi ad improvvisi squarci lirici e drammatici con intensa partecipazione. Una prestazione che dimostra sia una professionalità accurata sia una adesione convinta ed impegnata alle esigenze dello spettacolo.
I colleghi sono tutti all’altezza: dal Cefalo stilizzato e appassionato insieme del tenore Leonardo Cortellazzi, altro elemento senza il quale sarebbe più complicato portare in teatro un certo repertorio moderno, all’Aurora limpida e perfettamente in parte del soprano Cristina Baggio; dalla Diana cupa e rancorosa del contralto Francesca Ascioti, al Crono sicuro del basso-baritono William Corrò.
Scarsino il pubblico presente al Malibran, come era ovvio, ma ben disposto ad applaudire e a riconoscere a tutti gli artefici dello spettacolo il giusto merito.
Adolfo Andrighetti