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ALLA FENICE UN “DON GIOVANNI” FRENETICO E CIMITERIALE

23/10/2017
ALLA FENICE UN “DON GIOVANNI” FRENETICO E CIMITERIALEUna danza frenetica all’interno di un camposanto. A questo fa pensare, in estrema e forse approssimativa sintesi, il fortunato e pluripremiato “Don Giovanni” di Mozart, regia di Damiano Michieletto, riproposto alla Fenice a distanza di sette anni dalla sua prima rappresentazione.
Nella metafora, il camposanto è rappresentato dalla splendida cornice scenografica ideata da Paolo Fantin: un’ambientazione chiusa, tetra, soffocante, vagamente cimiteriale, con le pareti sempre uguali di un palazzo elegante e in decadenza che continuano a ruotare su se stesse, mostrando luoghi sempre diversi eppure, nonostante l’incessante alternarsi, sempre uguali. Né va  dimenticato il sinistro e suggestivo gioco di luci quasi sempre in chiaroscuro ideato da Fabio Barettin, con i personaggi che si sdoppiano nelle loro ombre riflesse sulle pareti con effetto inquietante; ombre che risultano altrettanto importanti, nella dinamica teatrale, dei protagonisti in carne ed ossa. Prezioso il contributo fornito anche dagli appropriati costumi creati da Carla Teti.
Questa ambientazione scenografica, il camposanto nella metafora, accoglie però, per contrasto, una danza frenetica: cioè il tourbillon continuo, ipercinetico, nevrotico, cui la regia costringe i personaggi, il cui movimento incessante accompagna ed asseconda quello delle pareti. L’agitazione che si vede in palcoscenico risulta soffocante anch’essa come il cupo palazzo che la contiene: e ciò perché mozza il respiro di chi interpreta e di chi guarda, trascinando i protagonisti in un vortice che è claustrofobico esattamente come l’immoto ambiente nobiliare che li circonda, perché dall’uno come dall’altro è impossibile uscire.
Al centro di questo vortice inarrestabile e stordente grandeggia il suo motore, Don Giovanni, che Michieletto vuole vittorioso e dominatore anche dopo la sua discesa all’inferno, quando compare, durante la scena finale, a riaffermare un potere assoluto su coloro che sono le sue vittime, pur dovendogli la vita. Don Giovanni, infatti, è il demone, sempre vivo e sempre in movimento, dal quale tutti traggono l’energia per poter “essere” prima ancora che per poter “agire”, ma che tutti trascina in una corsa sfrenata verso il nulla dalla quale egli solo si erge vittorioso; perché lui “è” il nulla e la cupio dissolvi fa parte della sua essenza.
Ebbene, la direzione di Stefano Montanari, elettrizzante, incalzante, ritmatissima, contrassegnata da un gesto eloquente e comunicativo fino all’esuberanza, accompagna in totale sintonia ciò che si vede sul palcoscenico - cioè la frenetica corsa di don Giovanni e delle sue vittime verso una meta inesistente – permettendo la realizzazione di uno spettacolo di assoluta coerenza e compattezza, oltre che di alto livello artistico. Il pubblico apprezza e, alla serale cui si riferiscono queste note, accoglie con spontaneo entusiasmo e anche con gratitudine la bella e preziosa proposta che gli viene fatta.
L’amalgama fra l’impostazione registica e quella della direzione-concertazione, prima ragione dell’eccellenza del risultato ottenuto, è sostenuto e rafforzato da un cast di elevata qualità artistica prima ancora che vocale; un cast che appare particolarmente affiatato, perché accomunato dalla volontà di impegnarsi a fondo per dare vita ad un progetto in cui è giusto credere e per il quale vale la pena sudare le proverbiali sette camicie.
E sette camicie, non solo metaforicamente, le suda prima di tutti il protagonista Alessandro Luongo. Questi è sollecitato dalla regia ad un’agitazione quasi parossistica, che raggiunge il suo acme soprattutto nel secondo atto, quando, in un barcollare sempre più accentuato, l’incapacità del Burlador di fermarsi e di trovare pace mostra i segni inquietanti della patologia. Ciò nonostante, il Don Giovanni di Luongo ha modo di esibire una vocalità dai seducenti e virili colori da bass-baritone, bravamente adeguata ad ogni situazione in una varietà di accenti ed espressioni ove la protervia si alterna all’ironia, al sarcasmo, alla sguaiataggine goliardica, alla passione erotica; un caleidoscopio con cui il canto asseconda la logica dello spettacolo imperniata sul movimento e che restituisce l’immane personaggio almeno in una gran parte delle sue infinite sfaccettature.
Accanto a lui, Omar Montanari come Leporello conferma la sua notevole caratura artistica, traendo il meglio da uno strumento limitato per corpo e volume eppure di straordinaria duttilità ed espressività; ma, soprattutto, creando un personaggio che rimane davanti agli occhi anche dopo la calata del sipario tanto è vivido ed umanissimo, stretto com’è fra l’insofferenza verso un padrone prepotente e devastante (si ricordi l’amarezza che trasuda dall’aria del catalogo), e la consapevolezza che il legame che lo unisce a lui è forte al di là di ogni intenzione, quasi viscerale, e non scevro da un’inconfessata ammirazione. In questo quadro, la balbuzie che in questa riproposta dello spettacolo gli è imposta nei recitativi – una novità gestita con abilità e senso della misura dall’artista - accentua la fragilità del personaggio ma non il lato buffonesco del suo carattere, che resta incline alla malinconia e ad un certo ripiegamento su se stesso.  
Al tenore Antonio Poli sono stati riservati forse gli applausi più intensi della serata. Al di là di graduatorie di merito che è sempre meglio evitare dal momento che una spettacolo d’opera non è una gara sportiva, non vi è dubbio che il suo Don Ottavio è cantato veramente bene, con voce sonora, corposa, bene emessa e ben proiettata. Al timbro solare, splendente, corrisponde un fraseggio che sa essere vario ed eloquente, come nell’aria “Il mio tesoro intanto”. E’ un Don Ottavio robusto, virile, sanamente latino per la bellezza dei mezzi, soprattutto se rapportato ad un altro filone interpretativo, di scuola straniera, ove una presunta competenza stilistica non è accompagnata a sufficienza dalla giustezza della dizione, dalla espressività del fraseggio,  dalla bellezza del timbro.
Per chiudere con la parte maschile del cast, ricordiamo l’ottimo Masetto di William  Corrò, capace di esprimere con efficacia, nella sua breve aria “Ho capito, signorsì”, tutta la rabbia e la frustrazione di un “villano d’onore” che, a causa dell’inferiorità della sua posizione sociale, deve subire che la sua promessa sposa riceva le attenzioni erotiche di Don Giovanni. Bene anche il collaudato Commendatore di Attila Jun, dalla ampia e risonante zona grave, imponente e di impressionante impatto tanto sul piano vocale quanto su quello scenico.                
Il versante femminile del cast non è meno apprezzabile di quello maschile, a cominciare dalla superba Donna Elvira di Carmela Remigio. L’artista, in perfette condizioni vocali e padrona assoluta del personaggio, ci offre un’interpretazione da autentica fuoriclasse. Il timbro pieno, rotondo, di bel colore, la sorprendente proiezione del suono, la straordinaria varietà di un fraseggio che passa dall’invettiva bruciante alla dolente confessione: tutto è messo al servizio di un’interpretazione memorabile e che restituisce per così dire dalle viscere un personaggio complesso ed umano, preda di un amore che non vuole tramontare anche se è vilipeso di continuo. Un esempio fra i tanti: il recitativo che precede l’aria “Mi tradì quest’alma ingrata”.
Accanto ad un’artista di questa levatura non sfigurano affatto la Donna Anna di Francesca Dotto e la Zerlina di Giulia Semenzato. La prima, forte di un assetto vocale e di uno strumento di prim’ordine, trova gli accenti più appropriati per restituire tutta la nobiltà e la grandezza di sentire che caratterizza quest’eroina da opera seria.
La seconda è ben lontana dallo stucchevole cliché, al quale anche oggi capita di vedere consegnato il personaggio, del soprano soubrette tutta vezzi e mossettine. Rappresenta, invece, un tipo umano pieno di verità, una ragazza di campagna ambiziosa e ricca di una sensualità che fatica a gestire onestamente nell’incertezza fra Masetto e Don Giovanni: una sensualità – ed è questo il punto – risolta soprattutto con la voce, che ne gronda ad ogni nota, piuttosto che con un gestire che rimane sempre misurato. Se a ciò si aggiungono la padronanza tecnica, la luminosità del timbro e l’omogeneità dell’emissione, si capisce che ci si trova davanti ad un’artista di tutto riguardo.  
Si chiude con il doveroso e non formale riconoscimento alla bravura dell’orchestra e del coro del Teatro, quest’ultimo istruito come sempre da Claudio Marino Moretti.
Adolfo Andrighetti

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