Fenice: "Un ballo in maschera" fra razzismo e bella musica
Che il “Ballo in maschera” di Giuseppe Verdi e del librettista Antonio Somma sia veramente “splendidissimo”, per usare la scorretta ma simpatica iperbole del paggio Oscar, nessuno lo mette più in dubbio.
E’ la prima opera composta da Verdi dopo gli anni che egli stesso definì di “galera”, perché oberati da un intenso lavoro su commissione; un’opera, quindi, che non poteva limitarsi alla routine, al semplice mestiere, ma doveva esprimere le più sincere aspirazioni artistiche del compositore. Tuttavia va ricordato che “Il ballo in maschera”, tratto da un soggetto di Scribe già musicato da altri compositori fra cui Auber, non è una prima scelta. Verdi aveva in mente il Re Lear, idea accarezzata a lungo e poi abbandonata probabilmente perché il libretto, già completato da Somma, non era all’altezza del soggetto shakespeariano e delle aspettative dell’esigentissimo musicista.
Ma i musicologi insistono soprattutto sulla varietà di toni e di colori, cifra caratteristica dell’opera, che accosta il coté brillante e cortigiano alla passionalità più infuocata, compreso un tocco di parodia dal sapore vagamente goliardico. Questi diversi motivi ispiratori ed in particolare i primi due, si alternano di continuo nella partitura, con improvvise, geniali, anche brusche variazioni musicali e di atmosfera, che costituiscono il fascino dell’opera e, insieme, una caratteristica così spiccata, così provocatoria, da risultare anche sconcertante.
D’altra parte, non va dimenticato che Verdi guardava con diffidenza quei suoi lavori, come “I due Foscari”, che riteneva monocromatici, perché, attento com’era alle esigenze del pubblico, temeva che la poca varietà finisse per annoiarlo, mentre lui voleva tenerlo inchiodato alla poltrona del teatro: per la gloria dell’arte ma anche per quella del botteghino, ché Verdi, con straordinario realismo da agricoltore, ha sempre perseguito con testardaggine il doppio obiettivo della musica che voleva lui e del teatro pieno. La sorprendente varietà di atmosfere che si riscontra ne “Un ballo in maschera” costituisce, quindi, la realizzazione di un suo precisa obiettivo artistico, oltre a rappresentare il risultato di un’occhiata retrospettiva lanciata verso Shakespeare e l’opera barocca, con la loro alternanza di sublime e volgare, di tragico e comico.
La componente spiritosa e disinvolta è incarnata dal paggio Oscar, cui è affidata una musica briosa, spumeggiante, che risente dell’influenza francese ed in particolare di Offenbach. Il fuoco della passione, invece, si canta in molte parti del “Ballo”, ma raggiunge la sua espressione più completa e travolgente nella scena del secondo atto fra Amelia e Riccardo, quella dell’”orrido campo” per intenderci. La vena goliardica emerge alla fine di quello stesso atto, quando i truci congiurati si trasformano di colpo nella parodia di se stessi, vedendo Renato fare involontariamente da paraninfo agli amori della sua sposa con Riccardo e ridendone a bocca spalancata nel pregustare il “baccano” che questo sapido pettegolezzo susciterà a Boston.
Dopo di che, ognuno è libero di preferire il caleidoscopio cromatico de “Un ballo in maschera”, oppure, tanto per portare qualche esempio, il vellutato, forse cupo ma caldo terra di Siena del “Simon Boccanegra” o l’araldico e un po’ funereo ma sublime nero e oro del “Don Carlos”.
Su quest’opera, così impegnativa perché sfaccettata al punto da risultare spiazzante, la Fenice ha voluto scommettere, scegliendola come spettacolo inaugurale della stagione 2017-2018 e affidandola alle cure di Gianmaria Aliverta. Il regista, 33 anni, si sta affacciando ora alle maggiori ribalte dopo essersi formato nell’associazione VoceAllOpera da lui fondata, laboratorio per la divulgazione dell’opera lirica in ambienti non tradizionali. La scommessa è ampiamente vinta, com’era prevedibile, trattandosi non di un salto nel buio ma della fiducia concessa ad un giovane che aveva già mostrato di meritarsela, con gli allestimenti al Malibran del dittico “La Voix humaine” (Poulenc) e “Il diario di uno scomparso” (Janacek) nel 2015 e, nel 2016, della “Mirandolina” (Martinu).
Aliverta non stravolge la vicenda costruita da Verdi e Somma, anzi la rispetta nella sua componente principale, che è la passione amorosa. Ma dietro agli amori contrastati mantiene, come in filigrana, un’idea unitaria, quella del razzismo. Per arrivare a ciò il regista utilizza degli spunti presenti nel libretto, come la maga Ulrica “dell’immondo sangue de’ negri”; ma anche la presenza nel cast di una cantante afroamericana, il soprano Kristin Lewis. E trasporta la vicenda, dal secolo XVII ad un periodo intercorrente fra il 1867 e il 1887, quando la guerra di secessione si è conclusa e la schiavitù è formalmente abolita. Ma molta strada dovrà essere fatta prima che, dopo la legge, anche la cultura e il costume riconoscano piena dignità alle persone di colore, come la regia di Aliverna ci fa capire.
Si chiariscono così le ragioni della congiura contro Riccardo, riconducibili ad un suo eccessivo aperturismo in campo sociale: non per niente smentisce il giudice, principale rappresentante dell’establishment, annullando la condanna da lui pronunciata contro Ulrica, strega di colore in combutta con le forze occulte; e fa di Oscar, presentato dalla regia come un ragazzaccio sfrontato di estrazione ed educazione non limpide, quasi un proprio consigliere privilegiato.
L’idea registica funziona bene e non accusa forzature, salvo forse qualche veniale eccesso didascalico che vuole ribadire ciò che è già chiaro. E’ apprezzabile perché valorizza la componente politica - presente solo implicitamente nell’opera - facendone un importante motore dell’azione, in perfetta sintonia, peraltro, con una sensibilità che Verdi ha dimostrato in molte sue opere, ove affetti privati e ragion di Stato si incrociano più volte.
Il razzismo viene presentato già durante l’ouverture, ove si vede un servo di colore, oggetto di scherno e di disprezzo, che strofina intimidito i gradini di una scalinata. E viene ribadito nel corso del secondo atto: all’inizio, quando si vede un nero inseguito, quindi raggiunto, picchiato duramente e abbandonato come morto nell’orrido campo; è sua la testa che si leva di sotterra e terrorizza Amelia prima dell’arrivo di Riccardo. Alla fine dell’atto, poi, compaiono, sul fondo del palcoscenico, la croce in fiamme e i cappucci bianchi del Ku Klux Klan, al quale di certo appartengono i congiurati.
Le scene di Massimo Checchetto, nella loro linearità ed essenzialità sono funzionali all’idea registica: la prima scena del primo atto mostra una scalinata praticabile che sormonta una serie di seggi e scranni sui quali prendono posto aristocratici e titolati. Molto felice la realizzazione dell’antro di Ulrica, un ambiente nudo e buio illuminato prima da ceri e poi da specchi. Questi ultimi, poi, ruotando su se stessi, da oggetti sinistri ed inquietanti perché riflettono e moltiplicano la realtà, si trasformano rapidamente in strumenti di scherzo, con gli astanti che li usano per nascondersi oppure per svelarsi: un’idea semplice, con la quale la regia asseconda la varietà di toni ed atmosfere che contraddistingue non solo la scena di Ulrica, dove lugubre e brillante convivono, ma tutto il “Ballo in maschera”.
Nel secondo atto, l’orrido campo è reso con una sorta di scalea rocciosa e diruta, semovente al centro del palcoscenico. Nel terzo atto, l’abitazione di Renato è un interno borghese semplicissimo, quasi spoglio, con un lungo tavolo che corre parallelamente al palcoscenico e un grande ritratto del conte, un quadro su cui Renato sfoga il proprio odio in modi fin troppo esasperati, fra l’altro anche minacciandolo con un attizzatoio. Nella scena finale, ove sono collocati gli essenziali movimenti coreografici di Barbara Pessina, il palcoscenico vuoto accoglie uno scorcio della statua della libertà, cioè la parte superiore del capo e la fiaccola: un anacronismo, ma il simbolo pertinente, al pari della bandiera USA spesso presente in scena, di una nazione che, pur desiderando sinceramente e anche generosamente i grandi ideali di libertà e di democrazia, si è trovata a contraddirli spesso anche al proprio interno.
Fondamentali le suggestive luci di Fabio Barettin nel creare l’atmosfera dei diversi ambienti. E sempre appropriati i bei costumi di Carlos Tieppo.
Sul podio c’è Myung-Whun Chung, uno dei più prestigiosi direttori d’orchestra oggi in circolazione. Con lui si va sul sicuro ed in modo particolare nel repertorio verdiano, del quale è interprete ammiratissimo. Alla Fenice è la quinta volta che dirige – e sempre con grande successo – un’opera di Verdi: prima de “Un ballo in maschera” è toccato, nell’ordine, a “La traviata”, “Rigoletto”, “Otello” e “Simon Boccanegra”, per il quale i critici musicali gli hanno assegnato il Premio Abbiati 2015.
Il maestro sud-coreano dà spessore e risalto ad ogni accompagnamento, a soluzioni melodiche, armoniche e coloristiche talvolta trascurate, ma inserendo ogni particolare all’interno di una narrazione musicale fluente e trascinante, dalle sonorità piene e rotonde, ove il respiro sinfonico si accompagna alla cura riservata all’esecuzione vocale. Colpisce, poi, la fluidità con cui si trascorre dal dramma alla brillantezza, per cui il contrasto, inevitabilmente segnato dal passaggio di atmosfere, viene reso naturale come nella vita e pienamente godibile sul piano musicale. Alla ottimale riuscita dell’interpretazione complessiva collaborano in maniera determinante l’orchestra ed il coro del Teatro, coro diretto come sempre da Claudio Marino Moretti. Apprezzata, nella scena di Ulrica, la presenza, talvolta rimossa, delle voci bianche: i Piccoli Cantori Veneziani diretti da Diana D’Alessio.
Il cast è dominato dalla classe interpretativa di Francesco Meli, un Riccardo elegante e scanzonato, libero e generoso come Verdi l’aveva immaginato; soprattutto, di assoluta sicurezza vocale oltre che scenica, padrone di un canto forbito ed illuminato da un gioco dinamico di straordinaria varietà. Magistrali, in particolare, i suoi piani e pianissimi: rotondi, timbrati, sonori, corrono meravigliosamente per il teatro e conferiscono spessore ed incisività al fraseggio e quindi all’interpretazione. A ciò si aggiungano l’emissione pulita ed omogenea, il timbro di raro prestigio, la dizione immacolata. Anche gli acuti, certo non il pezzo forte dell’artista, risultano sufficientemente lucenti e risonanti.
Accanto a Francesco Meli, sugli scudi anche la consorte, Serena Gamberoni, Oscar di irresistibile freschezza scenica e vocale: una specie di impertinente Oliver Twist secondo le riuscite intenzioni della regia, dal quale scaturisce una cascata sonora lucente, spumeggiante, brillantissima. Il miglior Oscar che abbia mai visto ed ascoltato in palcoscenico.
Il baritono bulgaro Vladimir Stoyanov, Renato, si affida ad un professionismo solido ma un po’ generico, inficiato qua e là da qualche imperfezione vocale. Ma trova una buona emissione, morbida e sfumata, nel “O dolcezze perdute” e, nel complesso, restituisce un personaggio credibile, con l’unica eccezione del parrucchino che fa volare alla fine dell’aria, mostrando una capigliatura scarsa e bigia laddove prima ce n’era una folta e nera. Certo, il gesto – ovviamente voluto dalla regia – sta a indicare la definitiva rinuncia di un uomo maturo alla speranza di essere amato da una donna più giovane e più bella di lui, affascinata dal brillante e potente Riccardo, del quale Renato forse è sempre stato geloso. Certo, si sa. Ma si sa anche che in teatro non basta avere una buona idea: bisogna anche realizzarla in maniera convincente.
Silvia Beltrami è un’Ulrica di estrazione belcantistica, la cui interpretazione, misurata ma non priva di efficacia drammatica e di impatto emotivo, si fa preferire ad altre esecuzioni caratterizzate da una vocalità più torrenziale ma anche da un approccio alla parte più esteriore se non plateale, effetti ed effettacci compresi.
Eccellente sul piano vocale il Silvano di William Corrò, ma troppo statico sulla scena davanti al direttore d’orchestra. A posto, corretti e in parte, i due congiurati: il Samuel del coreano Simon Lim e il Tom di Mattia Denti. Sicuro e squillante il Giudice di Emanuele Giannino.
Un discorso a parte va fatto per Kristin Lewis, il soprano USA cui è affidato il ruolo di Amelia e che fa annunciare un attacco di influenza durante l’intervallo fra il secondo ed il terzo atto, pur portando a termine la recita. Ogni giudizio sulla sua prestazione, quindi, deve essere sospeso. A titolo di cronaca, va detto che l’artista, consapevole di non essere stata all’altezza delle aspettative, abbandona bruscamente il palcoscenico mentre risponde agli applausi finali insieme ai colleghi, nonostante il pubblico veneziano l’avesse sostenuta con il garbo e l’urbanità che tradizionalmente lo contraddistinguono.
Alla serale cui si riferiscono queste note, un teatro stracolmo ha decretato un caldo successo per tutti, con punte incandescenti per il maestro Myung-Whun Chung, Francesco Meli e Serena Gamberoni.
Adolfo Andrighetti