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Al teatro Malibran, uno Spontini dimenticato

24/01/2018
Al teatro Malibran, uno Spontini dimenticatoDi Gaspare Spontini (Maiolati, Jesi, 1774-1851) è abbastanza nota (abbastanza, ché le sue opere non sono mai entrate a far parte del grande repertorio) la fase parigina, quella in cui la sua musa solenne e paludata, anche se non priva di sinceri accenti drammatici, incontra una particolare consonanza con quella grandeur di cui l’epica napoleonica aveva bisogno per la propria autocelebrazione. E’ il cosiddetto periodo neoclassico di Spontini, in cui vedranno la luce le sue opere più fortunate, come “La Vestale” (1807) e “Fernando Cortez” (1809). Ad esso farà seguito la più tormentata fase berlinese, che, dal punto di vista artistico, culminerà con “Agnes von Hohenstaufen” (1829).
Ma, a parte gli addetti ai lavori, chi sa qualcosa del percorso giovanile di Spontini, quello italiano, ispirato alla scuola napoletana e compiuto prevalentemente all’interno del genere buffo? Una tappa di questo percorso è costituita dall’opera in scena al teatro Malibran per la prima volta in tempi moderni: “Le metamorfosi di Pasquale”, farsa giocosa in un atto su libretto del veneziano Giuseppe Maria Foppa, abile uomo di teatro al quale si devono anche i testi de  “L'inganno felice”, “La scala di seta”, “Il signor Bruschino”, musicati da Gioachino Rossini.
L’operina debuttò il 16 gennaio 1802 al teatro Giustiniani in San Moisè a Venezia. Fu ritirata presto, già il 22 dello stesso mese, conseguenza di una tiepida accoglienza. Da quel momento, mentre il libretto resta reperibile, della musica si perde ogni traccia, fino a quando la partitura autografa viene ritrovata nel 2016 nel castello d’Ursel a Hingene (Belgio), forse in conseguenza dei legami parentali che univano quella famiglia alla moglie di Spontini, Céleste Érard.
Da qui l’edizione critica a cura di Federico Agostinelli e l’iniziativa, culturalmente preziosa, della Fondazione Teatro La Fenice di farsi carico della prima rappresentazione in tempi moderni in collaborazione con la Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi e all’interno del meritorio progetto “Atelier della Fenice al Teatro Malibran”. Tale progetto, come è noto, prevede la messa in scena di opere in collaborazione tra la Fenice e l’Accademia delle Belle Arti di Venezia, la cui Scuola di Scenografia si fa carico delle scene (in questo caso di Piero De Francesco), dei costumi (Elena Utenti) e delle luci. La regia, invece, come di consueto per queste produzioni, è affidata a Bepi Morassi.
“Le metamorfosi di Pasquale” nascono all’interno della grande scuola napoletana, alla quale appartiene anche il primo Spontini, quello buffo. In primo luogo, va precisato che si tratta di una farsa definita “moderna”, in quanto priva di maschere e non cantata in dialetto. Inoltre – secondo il maestro Gianluca Capuano responsabile dell’esecuzione al Malibran - la presenza di alcuni recitativi accompagnati caratteristici dell’opera seria, la ricerca tecnico-armonica, la sapienza contrappuntistica e alcune preziosità di scrittura, fanno sì che questa farsa vada un po’ più in là di quanto era consuetudine nel genere, nonostante un’orchestrazione tradizionale e la scrittura convenzionalmente brillante.
Secondo il prof. Gianni Garrera, anche la vicenda presenta dei motivi di originalità, a cominciare dal titolo, nel quale un termine nobile, consacrato dalla classicità ovidiana – le metamorfosi - viene abbinato ad un nome familiare, domestico, tipico del mondo del teatro comico, cioè Pasquale.
Questi è un servo con ambizioni di promozione sociale, che, dopo dieci anni trascorsi in giro per il mondo a cercare inutilmente fortuna, torna nel proprio paese. Qui si addormenta e un marchese, ingiustamente accusato di omicidio, decide di scambiarsi le vesti con lui per non essere riconosciuto. Ecco dunque la metamorfosi: quando Pasquale si sveglia si trova acconciato con le vesti del marchese e, siccome una strega gli aveva predetto che gli sarebbe toccata una gran fortuna, è convinto che la predizione si sia avverata in quel momento e di essere diventato nobile. Il servo del marchese, Frontino, rimane accanto a lui per sostenere la finzione fingendosi suo servo.
Poi, dopo diverse peripezie nel corso delle quali Pasquale, creduto il vero marchese, viene accusato dell’omicidio di cui era imputato quest’ultimo, si giunge allo scioglimento finale: il protagonista, ormai smascherato e riconosciuto per quel poveraccio che è, rimane deluso e a bocca asciutta, mentre la sua morosa, Lisetta, sposa Frontino, e il marchese, la cui innocenza è stata appurata, si unisce alla sua amata Costanza.
L’iniziativa della Fenice di riproporre questa operina sconosciuta è doppiamente meritevole: per il prestigio dell’autore, in primo luogo; e per la genesi tutta veneziana del lavoro. Va riconosciuto, però, che, alla prova più importante, anzi decisiva, quella del palcoscenico, la farsa non regge e si sgonfia come un sufflè mal lievitato. E nulla vale a darle un senso, un’identità, una consistenza, l’impegno di tutti gli artefici dello spettacolo, che fanno del loro meglio ma alla fine devono arrendersi di fronte al principio per cui non si può costruire nulla con la carta velina. E di carta velina deve considerarsi sia la struttura teatrale di questa farsa, che potrebbe essere surreale se non fosse semplicemente insulsa, sia la fisionomia dei personaggi, povere anime prive di qualunque personalità.
Non basta, a sostenere l’operina che pencola pericolosamente da tutte le parti, l’abilità e l’esperienza del regista Bepi Morassi. Questi ambienta la vicenda a Napoli all’epoca dei café-chantant, negli anni che precedono la prima guerra mondiale; e, per insufflare vitalità in una vicenda che ne è priva, fa un gran uso di figuranti, controscene, trovate e trovatine, che però, non inserite in un contesto coerente, risultano fini a se stesse e sovrabbondanti. Né basta il lavoro pulito e dignitoso della Scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, che delinea con semplicità un ambiente da café-chantant prima all’interno e poi all’esterno e dota i personaggi dei costumi adatti all’esile storiella.
Non basta neppure la buona volontà del cast, all’interno del quale spicca la vocalità pirotecnica e squillante, seppure a tratti un po’ aguzza e sovraesposta, della Lisetta del soprano siberiano Irina Dubrovskaya. Accanto a lei si segnala il Pasquale dal solido mestiere di Andrea Patucelli, del tutto a proprio agio in un ruolo vocalmente poco impegnativo. Apprezzabile ed apprezzato dal pubblico, che al termine della pomeridiana cui si riferiscono queste note applaude lo spettacolo con condiscendente cordialità, l’apporto di tutti gli altri interpreti: Giorgio Misseri (Il marchese); Carlo Checchi (Frontino); Michela Antenucci (Costanza); Francesco Basso (Il barone); Christian Collia (Il cavaliere/un sergente).
Non basta, infine, a sostenere il tutto, neanche la musica, con la sua convenzionale gradevolezza, nonostante la bravura del direttore e maestro al cembalo, Gianluca Capuano, che fa tutto quello che deve e che può, mostrando doti significative e accompagnando con grande attenzione il palcoscenico.
Niente basta, insomma, per sostenere ciò che, alla prova del palcoscenico, si mostra insostenibile. E, mentre si esce dal teatro, si pensa che la pochezza di ciò cui si è assistito può servire almeno a farsi una pallida idea di che cosa può aver significato, di lì a qualche anno, l’irruzione sullo stesso palcoscenico del San Moisè delle prime farse del giovanissimo Rossini, che surclassa e travolge i vecchi modelli seppellendoli definitivamente con la forza di una creatività, di una energia ritmica, di una efficacia teatrale, prima inimmaginabili.
Adolfo Andrighetti

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