Barocco delizioso ed ironico al Teatro Malibran
La genesi dell’opera, messa in scena per la prima volta nel 1727 al Teatro Sant’Angelo di Venezia, risulta un po’ tormentata, anche se perfettamente in linea con le tumultuose abitudini teatrali che allora erano la norma. Bisogna risalire addirittura quattordici anni prima e cioè al 1713, quando, in quello stesso Teatro Sant’Angelo, debutta un “Orlando furioso” musicato da Giovanni Alberto Ristori su libretto del giurista ferrarese Grazio Braccioli. L’anno successivo Vivaldi assume l’incarico di impresario dello stesso teatro, ove riprende il lavoro di Ristori integrandolo con molta musica propria. Tale era il costume dell’epoca, quando l’opera d’arte non era considerata un assoluto intangibile ma viveva in funzione della rappresentazione, alle cui esigenze veniva di continuo e disinvoltamente adattata.
Dopo un’assenza di alcuni anni da Venezia a causa delle polemiche suscitate dal libello di Benedetto Marcello “Teatro alla moda”, Vivaldi ritorna in laguna nel 1725, ove, assunta la carica di “direttore delle opere in musica” del Teatro Sant’Angelo, vi fa rappresentare il suo “Orlando furioso”. La musica è tutta sua e nuova, anche se Vivaldi utilizza, come da prassi, qualcosa del materiale con cui a suo tempo aveva integrato il lavoro di Ristori; il libretto, invece, resta quello di Braccioli.
La trama del dramma musicale, tratto liberamente dall’omonimo poema di Ludovico Ariosto, è assai complicata e punta non tanto sulla coerenza e la compattezza drammaturgiche, quanto sull’evocazione di un’atmosfera fantastica ed incantata, ove il magico, lo straordinario, il meraviglioso fanno da sfondo ai più svariati intrecci amorosi. Per semplificare al massimo, si può dire che la vicenda si svolge attorno al paladino Orlando e alla maga Alcina, che ne sono i protagonisti. Il primo è innamorato di Angelica e, quando scopre che la donna ha sposato Medoro, perde il senno, che ritroverà solo nel finale. Alcina, invece, maga subdola e dalle insidiose arti seduttive, vuole conquistare Ruggiero, il quale, però, riesce a spezzare i suoi incantesimi e resta unito a Bradamante. Al termine di una congerie di eventi mirabolanti, viene ristabilito l’ordine: il legame coniugale che unisce Medoro ed Angelica rimane saldo ed è benedetto dallo stesso Orlando, mentre Alcina perde i suoi poteri e la sua forza trasgressiva è annichilita. Inoltre, la morale conclusiva è tratta da Astolfo, che non a caso ha restituito il senno ad Orlando e si presenta, quindi, come colui che ricompone l’ordine che si era alterato: “Saggio, chi dal fallir prudente impara”, egli afferma, chiudendo la strampalata vicenda con una nota di pacato, familiare buon senso.
Lo spettacolo in scena al Teatro Malibran ha riscosso un meritatissimo successo di pubblico, grazie alla esperienza ed alla competenza di Diego Fasolis sul podio, all’allestimento intelligente, accurato e divertito di Fabio Ceresa, al cast vocale pienamente all’altezza.
L’esecuzione musicale, affidata al maestro Fasolis alla guida dell’orchestra e del coro della Fenice, rende piena giustizia a questa singolare e rutilante partitura (rivista criticamente da Federico Maria Sardelli), ricca di musica affascinante, squisitamente rivolta al nobile ed elevato divertimento del pubblico – non al suo ammaestramento o alla sua educazione – secondo la concezione culturale barocca. L’ascolto ci immerge in un’atmosfera magica, che ci abbraccia e ci esalta grazie alla varietà melodica, alla vitalità ritmica, alla ricchezza strumentale di questa musica geniale. Una musica che si combina con la pirotecnica e sempre sorprendente parte vocale in un insieme di raro equilibrio rispetto alla produzione operistica coeva, in cui l’orchestra riveste solitamente un ruolo ancillare nei confronti del canto. Qui, invece, le due componenti si sostengono e si esaltano a vicenda senza che l’una prevalga sull’altra.
Ma sarebbe impossibile rivivere il fascino di un’opera barocca senza un cast adeguato, che invece al Malibran c’è, eccome: preparatissimo, affiatato, musicale, cui fa degna corona, nei suoi pochi ma teatralmente rilevanti interventi, il coro del Teatro, diretto da Ulisse Trabacchin.
Sonia Prina, contralto vero come se ne incontrano ben pochi dal momento che questo registro è così raro in natura, è un Orlando ferratissimo sul piano vocale, padrone delle agilità di qualunque genere esse siano, dominatore dello stile barocco. L’artista, poi, tiene con sicurezza e bella disinvoltura il palcoscenico: il che, del resto, si può dire di tutti i suoi colleghi. Forse il timbro non è dei più belli e dei più rotondi, ma è lieve menda in una prestazione di così alto livello.
Impegnata nella terrificante parte di Alcina e quindi alle prese con sei arie di genere vario oltre a tre recitativi che devono essere intonati con la giusta intenzione e con espressione, il mezzosoprano Lucia Cirillo dà una concreta e vivida dimostrazione di cosa significhi interpretare un ruolo dell’opera barocca. Qui canto ed azione scenica si devono fondere in un equilibrio ove nessuno dei due componenti sia trascurato a vantaggio dell’altro, ma entrambi siano accuditi in contemporanea, con la cura costante di attirare lo spettatore, divertirlo, stupirlo. Tutto ciò riesce molto bene all’artista e quindi onore al merito.
Molto apprezzata anche l’Angelica del soprano Francesca Aspromonte: voce giovane, fresca, di bel timbro, usata con perizia, cui si aggiunge un’aggraziata e disinvolta presenza scenica. Considerazioni analoghe valgono per la Bradamante del mezzosoprano Loriana Castellano, che interpreta il personaggio con bel piglio teatrale e sicura impostazione vocale.
Fra le tre presenze maschili, spiccano i due controtenori: Raffaele Pe come Medoro e Carlo Vistoli come Ruggiero. Entrambi devono essere valutati più che positivamente, per la correttezza e la precisione di una linea vocale priva di pecche evidenti e dei limiti che questa categoria di voci, artefatte e non naturali, talvolta accusa. Il suono, quindi, risulta sempre ben proiettato, sufficientemente rotondo e morbido, di timbro gradevole in tutta la gamma. Un cenno particolare, però, va riservato a Ruggiero, per l’emissione controllata, raccolta ed omogenea, il bel legato, lo stile sorvegliato, il sentimento carico di nobile mestizia, con cui affronta le sue arie ed in particolare quella, splendida, del primo atto, “Sol da te mio dolce amore”, con flauto traverso obbligato.
Riccardo Novaro è un Astolfo di mezzi non del tutto adatti alla parte, che richiederebbe forse una voce di basso autentico, ma usati con grande correttezza e stile impeccabile.
Resta da dire della messinscena, riuscitissima, dovuta al regista Fabio Ceresa, coadiuvato da Massimo Checchetto per le scene, Giuseppe Palella per i costumi, Fabio Barettin per le luci, Riccardo Olivier per le coreografie, eseguite dall’ensemble di danza Fattoria Vittadini.
Lo spettacolo risulta, nel suo insieme, festosamente ed ironicamente ispirato al gusto barocco del meraviglioso e del sorprendente, con scenografie ampie e di effetto, architetture fastose ispirate a modelli d’epoca, ricchi costumi, abbondanza di dorature, artifici teatrali che rappresentano le onde infuriate del mare durante il naufragio di Medoro, l’arrivo dal cielo dell’ippogrifo che trasporta Ruggiero, il gigantesco guardiano Aronte che Orlando affronta durante la sua pazzia. Ma la ricostruzione non ha la pretesa di essere fedele, l’imitazione è ironica, il decoro barocco è una finzione. In altri termini, l’allestimento è una riproduzione elegantemente e simpaticamente falsa di uno spettacolo d’epoca; una ricostruzione che, imitando con garbo e con gusto, strizza di continuo l’occhio al pubblico, come a dirgli: facciamo bene, con tutti gli ori e i decori al posto giusto, facciamo bene ma non sul serio.
In un palcoscenico che la regia vuole sempre “agito” dagli interpreti, mai abbandonati a se stessi ma sempre accompagnati in una caratterizzazione tanto vivace quanto azzeccata, spicca la riuscitissima raffigurazione della maga Alcina, forse l’autentica protagonista della vicenda: una sorta di allegra e scervellata sacerdotessa dell’eros, che non prende mai sul serio ma di cui gode ogni attrattiva in mezzo alla sua vivacissima ed appariscente corte polisessuale, composta da maschi e femmine vestiti in maniera esattamente uguale. La sua comparsa, all’interno di una caverna-conchiglia suggestivamente illuminata (a proposito, l’eccellente light design risulta fondamentale per la resa dello spettacolo), è in perfetta armonia con la capricciosa sfrontatezza del personaggio, costretto poi a cambiare registro nel finale, quando la perdita dei poteri magici lo porta ad invocare “l’empie furie del baratro immondo”.
(rappresentazione del 17.4.2018)
Adolfo Andrighetti
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