Mariella Devia sceglie la Fenice per l’addio alle scene
Il percorso artistico (il termine “carriera” suona in questo caso inadeguato) del soprano, nato a Chiusavecchia d’Imperia, si avvia nel 1973 con la vittoria nel concorso “Toti dal Monte” e prosegue soprattutto nell’ambito del primo ottocento italiano, con alcune uscite eccellenti verso Mozart e, più di recente, Verdi (Traviata), per concludersi in questi giorni alla Fenice con tre recite di “Norma” di Bellini e la gratificazione del premio “Una vita nella musica”. Il premio, ideato da Bruno Tosi nel 1979 e promosso dalla Fondazione del Teatro La Fenice, la vede entrare come una regina in un albo d’oro di cui fa parte tutto il gotha della musica mondiale degli ultimi decenni, da Rubinstein a Bernstein, da Claudio Abbado a Pierluigi Pizzi, da Carlo Bergonzi a sir Jeffrey Tate, scomparso di recente: e c’è da chiedere scusa a tutti gli altri illustrissimi che qui non si possono citare.
La vita artistica di Mariella Devia si è sempre svolta con una consapevolezza, un equilibrio, una costanza di risultati, assolutamente ammirevoli. Per queste ragioni il soprano si propone come un’artista esemplare, alla quale le giovani generazioni sono chiamate a guardare come ad un punto di riferimento per la serietà, l’applicazione, la semplicità, doti che accomunano la cantante e la donna. La notizia, quindi, della sua intenzione di dedicarsi con più impegno all’insegnamento va accolta con entusiasmo da parte di tutti coloro che amano il teatro in musica e sanno che il suo futuro dipende anche dal fatto che le nuove leve possano contare su docenti saggi e preparati, in grado di seguirle con amore e competenza.
Ora, mentre mi risuona nelle orecchie e nel cervello l’eco delle ovazioni e degli applausi interminabili, accompagnati dalla consueta ed emozionante pioggia di fiori, con cui il pubblico della Fenice, ha voluto salutare e ringraziare Mariella Devia per tutto ciò che ha dato al teatro musicale in circa quarantacinque anni, mi rimane la gioia di scrivere una recensione che può non essere genericamente agiografica, perché l’artista cui è dedicata non vive delle glorie del passato ma desta ammirazione e commozione oggi come ieri e l’altro ieri.
Penso che la cosa migliore sia riferire delle emozioni che ho provato ascoltando Mariella Devia, a cominciare da quei suoni di vetro soffiato che rappresentano forse il suo marchio di fabbrica; suoni che galleggiano leggeri, anzi si librano, sul fiato, vaporosi, trasparenti, ma nello stesso tempo pieni, consistenti, ricchi di un’espressività eloquente ma contenuta, come consegnata ad una dimensione di superiore spiritualità. E’ quella stessa espressività, ma più marcata, più incisiva, con cui il soprano affronta i vari momenti di declamazione che caratterizzano la parte di Norma, senza sacrificare nulla della purezza del belcanto ma completandola con una carica emotiva accesa e insieme stilizzata, sublimata. In questo modo, quindi, canto spiegato e recitativo non si contrappongono ma si arricchiscono l’un l’altro, attingendo alla medesima fonte culturale e stilistica.
In questa logica le fioriture, risolte come sempre con assoluta sicurezza tecnica, rappresentano il modo in cui il belcanto si emoziona ed emoziona, lascia traboccare i sentimenti quando giungono alla loro pienezza, ma senza permettere che travalichino, che travolgano, contenendoli invece in una dimensione quasi ultraterrena.
In una serata come questa, doverosamente dedicata a salutare ed omaggiare un’artista tanto grande quanto schiva, tutto il resto dello spettacolo è contorno: magari di alta classe, ma pur sempre contorno.
La direzione del maestro Riccardo Frizza convince ed avvince pienamente quando asseconda ed accompagna con sensibilità i momenti lirici, patetici, della partitura, meno quando si abbandona, come nell’ouverture ma non solo, ad eccessi sonori, accentuando drammaticità e tinte scure con un gusto che mi è sembrato un po’ effettistico.
Superbo il coro del Teatro, diretto da Claudio Marino Moretti, che ha momenti di un’intensità e di una compattezza sonora quasi impressionanti. Eccellente l’Adalgisa di Carmela Remigio, che commuove per la musicalità e la sensibilità con cui fonde nei duetti la propria voce con quella di Mariella Devia, dando vita ad un unicum sublime in cui i sentimenti perdono la pesantezza terrena pur conservando pienezza ed intensità. L’artista, poi, sta bene sulla scena e conferisce al personaggio quel fascino che gli è proprio, quello di una femminilità ingenua, trepidante, appena sbocciata. Professionale, sicuro, l’Oroveso del basso Luca Tittoto, che non dispone di uno strumento di quelli che fanno dire “Però, che voce!”, ma lo usa come si deve. Meno convincente, invece, il Pollione del tenore rumeno Stefan Pop, dalla linea di canto discontinua e dalla emissione in debito di omogeneità e morbidezza. L’artista, inoltre, sembra poco convinto di quello che è e che fa sul palcoscenico, per cui non riesce a calarsi nel personaggio, a farlo proprio. Dei due comprimari, è parso più a fuoco vocalmente il Flavio di Emanuele Giannino che la Clotilde di Anna Bordignon.
E per una volta fa da contorno anche la messa in scena, che pure impegna sempre più spazio ed attenzione nelle cronache dedicate al teatro in musica. È quella che ha debuttato alla Fenice nel 2015, dovuta all’estro dell’artista afro-americana Kara Walker, che ambienta la vicenda verso la fine del diciannovesimo secolo in un Paese africano, ove i nativi, appunto i Galli del libretto, sono oppressi non dagli antichi romani ma da una potenza occidentale. Lo spettacolo conferma i pregi e i difetti che si erano evidenziati già nel 2015. In sintesi, Kara Walker è un’artista figurativa e si vede, nel senso che la sua idea di “Norma” si regge teatralmente soprattutto sulla scenografia, che non manca di fascino e di suggestione, incrociando linee curve e rette secondo una concezione che fonde con eleganza astrattismo e richiami etnici, e riproponendo quelle silhouette in bianco e nero alle quali l’artista deve molta della sua notorietà. Ma la regia, invece, è anonima: la conduzione dei cantanti non va oltre l’ovvietà e le masse vengono schierate immobili e in file ordinate davanti alla platea. I costumi, poi, anche se riprodotti dalle fonti, in un teatro occidentale risultano inadeguati, specie quelli della masse. Imbarazzanti, in particolare, quei feroci guerrieri armati di lancia, costretti ad indossare vesti che hanno tutto l’aspetto di camicie da notte femminili.
Alla fine rimane Mariella Devia, con il suo canto vibrante di un’emotività lunare, eburnea, di superiore astrazione; eppure pur sempre emotività, anche se differente da come la possiamo immaginare oggi, viziati da un gusto ordinario, terra terra. Ora, se è vero – ed è vero – che la grandezza di un artista lirico si misura soprattutto dai particolari, voglio chiudere queste note con il ricordo di una frase brevissima pronunciata dal soprano: quel “Son io” con cui Norma si accusa davanti al suo popolo di aver tradito la patria e il dio degli avi, appena sussurrato eppure di un’intensità emotiva da brividi, un capolavoro di espressività affidata alla bellezza formale, come una statua di Canova. E mi piace pensare che quel “Son io” appartenga non solo a Norma ma anche Mariella Devia, che in quel modo si presenta al proprio pubblico commosso e plaudente, confermandogli di esserci stata e di esserci ancora, per lui e per l’arte.
Adolfo Andrighetti