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Battistelli, Carsen, Ceccherini: ed è miracolo alla Fenice

06/07/2018
Battistelli, Carsen, Ceccherini: ed è miracolo alla Fenice“Richard III”, dramma musicale in due atti di Giorgio Battistelli su libretto di Ian Burton, messo in scena da Robert Carsen alla Vlaamse Opera di Anversa (2005) per la prima assoluta ed ora alla Fenice per la prima italiana, è la migliore realizzazione possibile, nella forma del teatro in musica, dell’omonima tragedia di William Shakespeare. Una tragedia fragile sul piano poetico e drammaturgico – pochi sono gli squarci di poesia autentica, mentre la struttura teatrale appare disomogenea e in parte farraginosa – che consiste tutta del personaggio del protagonista, è costruita attorno a lui e trova in lui la sua unica ragione d’essere. La figura di Gloucester, poi Richard III, infatti, emerge vigorosa, anzi possente, nella sua sistematica scelta del male, da lui coltivata con una baldanza, una vitalità, quasi una perversa allegria, da bizzarro, beffardo folletto malefico.
Ora, affermare, specie in avvio di recensione, che dopo Battistelli e Carsen c’è solo il diluvio, può sembrare apodittico, gratuito, perfino temerario. Eppure non vi sono dubbi che sarebbero d’accordo con me gli spettatori che, nella serale di martedì 3 luglio, hanno gremito la Fenice – posti vuoti quasi inesistenti – e hanno salutato lo splendido spettacolo con un calore, un entusiasmo, una condivisione, più unici che rari nei confronti di un’opera contemporanea.
Per prima cosa, Giorgio Battistelli ha estratto dal cilindro di musicista esperto ed appassionato di teatro – “Richard III” è la sua diciassettesima opera – il meglio delle sue risorse, dando vita ad un universo sonoro di straordinaria forza evocativa, capace di narrare e di comunicare, attraverso la cangiante eterogeneità dei linguaggi che lo compongono, con una immediatezza, un impatto emotivo, un realismo, alieni da ogni intossicazione intellettualistica e in grado di raggiungere la verità artistica. La cupezza delle tinte che dominano in orchestra non scade mai in monotonia, perché è attraversata da trasalimenti, riverberi, brividi sonori, che la rendono ancora più livida ed inquietante.
Di eccezionale valenza musicale e drammatica, poi, l’uso che Battistelli fa del coro – unico, vero deuteragonista accanto a Richard – che si moltiplica in una serie di ruoli e situazioni diversissime l’una dall’altra: si va dai monaci che accompagnano fuori scena la ferocia degli avvenimenti con brani liturgici in latino, ai cittadini che discutono gli eventi e ai soldati che partecipano direttamente ai fatti nella battaglia. Impegnata così a fondo sul piano musicale come su quello teatrale, la compagine della Fenice, condotta da Claudio Marino Moretti, conferma non solo l’abituale compattezza ed affiatamento ma anche una ammirevole duttilità, che si esprime nella varietà di colori, di gradazioni dinamiche, di stili, richiesta dalla partitura.
Naturalmente, la potenza espressiva della musica di Battistelli sarebbe rimasta sulla carta, o meglio sul pentagramma, se non avesse potuto contare su di un esecutore di rara competenza e sensibilità, il maestro Tito Ceccherini, alla guida di un’orchestra della Fenice particolarmente impegnata e partecipe.
Inoltre, merito tutt’altro che trascurabile e di non frequente riscontro, la musica di Battistelli è in perfetta sintonia con ciò che accade sul palcoscenico e con il libretto di Ian Burton. Quest’ultimo opera con abilità ed acume sull’originale di Sahkespeare, rispettandolo per quanto possibile anche nelle singole espressioni e tagliando ciò che si deve tagliare – più di due terzi della tragedia originale – per passare dalla prosa alla musica. Ma va detto che il nucleo incandescente di Shakespeare rimane intatto e anzi brucia al calor bianco se liberato da episodi e personaggi marginali che finiscono per attenuarne la violenza barbarica.
Ma il miracolo, che ci ha visti spettatori prima increduli e alla fine del tutto ammirati e conquistati, si è potuto compiere grazie al meraviglioso spettacolo di Robert Carsen, coadiuvato da Frans Willem de Haas come direttrice aggiunta, Radu e Miruna Boruzescu per set e costumi, Peter van Praet (insieme a Carsen) per le luci. La vicenda viene ambientata all’interno di una sorta di anfiteatro circondato da gradinate, come se l’eterno conflitto per la conquista del potere fosse niente più che una messa in scena, per quanto violenta e sanguinaria, priva di un nucleo di realtà autentica e alla quale si può partecipare come attori o spettatori, in un’intercambiabilità di ruoli spiazzante ed inquietante. Il centro dell’arena è occupato da una sabbia rossa nella quale sguazzano i vari personaggi, a simboleggiare il sangue che scorre a fiumi durante la tragedia e dal quale tutti finiscono per rimanere insozzati.
Ma il punto forte, l’intuizione geniale, su cui si regge lo spettacolo di Carsen, è la scelta di guardare la tragedia con gli occhiali del grottesco. Attenzione: non è una scelta che stravolge Shakespeare, che trasforma la sofferenza in farsa, la violenza in pantomima. Il sovrano senso del teatro del regista, infatti, la sua sensibilità mai convenzionale eppure mirabilmente equilibrata, fa sì che il grottesco aleggi sulla vicenda come un tocco di colore che ne rende ancora più aspre e livide le tinte, creando un’atmosfera vagamente surreale ma non per questo meno inquietante, come un incubo dal quale non ci si riesce a liberare perché il risveglio non arriva mai.
Ed ecco allora quei Pari d’Inghilterra rappresentati come manager della City, tutti in abito nero, bombetta e valigetta 24 ore: irrigiditi, standardizzati, disumanizzati come marionette nell’interpretare il loro ruolo di officianti dell’eterna liturgia di adorazione del potere. Ed ecco le spade trasformate in vanghe e i cadaveri trasportati qua e là con la carriola. Ed ecco, soprattutto, quel Richard III descritto come un istrione folle e diabolico sin dal volto imbiancato, un fanciullone maligno ed irresponsabile, capriccioso e perverso. In lui nulla vi è di vero, di stabile, di realmente desiderato: anche la ricerca del potere è più che altro un gioco adatto a riempire un abissale vuoto esistenziale più che la risposta ad un bisogno effettivamente e sinceramente avvertito. Nessun connotato reale lo contraddistingue, come fosse una maschera priva di volto: neppure la deformazione fisica, alla quale allude occasionalmente come fosse un saltuario cedimento nervoso o, ancora una volta, un gioco sciocco ed infantile, nel quale coinvolgere i suoi complici, che così si spersonalizzano ulteriormente diventando dei replicanti del loro capo.
Nell’interpretare un personaggio così complesso nella sue perversità, il basso-baritono Gidon Saks giganteggia, calandosi interamente nella parte e dominando il palcoscenico da padrone assoluto. E’ difficile immaginare un’immedesimazione più profonda e più intima in un ruolo teatrale, per cui tutto risulta funzionale all’interpretazione, anche la tendenza ad un’emissione personale e spesso reboante. L’unico particolare non a fuoco della sua interpretazione – ma dovuto alla regia – è risultato la seduzione di Lady Anna, ove l’approccio gelido, cerebrale, sottilmente insinuante descritto da Shakespeare e corrispondente alla natura del personaggio – la cui deformità fisica, va tenuto presente, non gli consente una proposta amorosa diretta ed esplicita – è sostituito da un brancicare, un palpeggiare goloso il corpo della malcapitata.
Attorno a Gidon Saks si schiera una compagnia di artisti tutti più o meno bravi e ben preparati. Menzioneremo almeno le tre parti femminili: la duchessa di York di Sara Fulgoni, Lady Anne di Annalena Persson, la regina Elisabetta di Christina Daletska, soprattutto le prime due molto incisive nella tensione declamatoria con la quale lanciano le loro invettive e le loro maledizioni nei confronti di colui che è, rispettivamente, loro figlio e marito. E poi il viscido, impiegatizio Buckingham di Urbano Malmberg: una caratterizzazione riuscitissima, il volto anonimo e vile del male in contrapposizione a quello variopinto ed istrionico di Richard III.
Nel finale, il tenorismo luminoso di Paolo Antognetti, Richmond, fa da perfetto contraltare alle sonorità cupe, catramose, del suo rivale, Richard III. I due mondi, insomma, si contrappongono anche attraverso i colori vocali dei due personaggi che li rappresentano: solari, limpidi quelli del tenore; scuri, ruvidi, quelli del basso-baritono. Tuttavia, l’atteggiamento con cui il “buon” Richmond afferra e indossa la corona che, dopo aver ucciso Richard in battaglia, gli spetta di diritto e quindi sale lentamente, ieraticamente, i gradini dell’arena a raccogliere gli applausi dei cittadini, non è del tutto rassicurante: il potere passa di mano in mano di continuo, ma nessuno può garantire che chi lo detiene per ultimo sia migliore del precedente. Certo, Richmond è migliore di Richard III (e ci vuole poco), ma è quella maledetta corona, simbolo di ogni potere umano, che finisce per corrompere chi la indossa...


Adolfo Andrighetti

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