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Biennale cinema - VENEZIA 75 - Mariateresa Crisigiovanni

07/09/2018
Biennale cinema - VENEZIA 75 - Mariateresa CrisigiovanniIL PORTIERE DI NOTTE. Una rivisitazione quasi necessaria

A suo tempo, anno 1974, si disse che il film di Liliana Cavani fosse un’opera ambigua per il tenue spartiacque tra coscienza fascista e coscienza antifascista, derivante dalla bivalenza comportamentistica dei personaggi che sconvolge ogni certezza ideologica e pone interrogativi perturbanti.
Anno 1957, in un hotel di Vienna (data non casuale poiché nel 1957 le truppe sovietiche lasciano Vienna che diventa il rifugio di molti nazisti sfuggiti ai processi) arriva una donna che riconosce nel portiere d’albergo l’ufficiale nazista che 15 anni prima l’aveva sottoposta alle sue violenze. Non lo denuncia, ne è attratta e gli si dà, questa volta volontariamente, fino alla conclusione in cui sia vittima sia carnefice si abbandonano all’autodistruzione, attraverso un rovesciamento di ruoli che all’epoca fece scalpore.
Alla sua uscita la censura lo accusò di oscenità con l’aggravante che fosse realizzato da una donna e che contenesse sequenze in cui proprio una donna prendeva l’iniziativa nell’atto sessuale. Partendo dall’affermazione provocatoria che non tutte le vittime sono sempre innocenti, Liliana Cavani evidenzia l’aspetto clinico e psicoanalitico del fascismo, studiandone i meccanismi di repulsione e di attrazione che può generare nell’animo umano.
Un tema costante nell’opera della regista è il rapporto di ‘scandalo’ che l'individuo instaura con la società: in “Francesco D’Assisi” l’umanità è scandalo per la gerarchia ecclesiastica, la scienza lo è per il potere religioso in “Galileo”, la contestazione lo è per il sistema ne “I Cannibali”. «Pongo sempre individui al centro di uno scandalo rappresentato da loro stessi per il fatto di essere così come sono” dichiara appunto la regista. Ne “Il Portiere” il concetto di scandalo si riferisce sia al tema della sessualità che del nazismo. Tutto il film può essere considerato un viaggio nel sottosuolo della coscienza, dove il fascismo è metafora della malattia dell’anima, un abisso privato in cui precipita l’uomo nel desiderio recondito di distruzione ed autodistruzione.
Più volte Liliana Cavani ha affermato che sua intenzione fosse non tanto realizzare un film sul nazismo, bensì sulla condizione nazista. Suggerisce di intendere la sua opera come un’analisi del disperato viaggio umano sospeso tra atrocità ed estasi, e sulla morte come necessario punto di arrivo. In questo senso il ruolo della dittatura, inevitabile apoteosi della violenza e della perversione, è qui anche quello di costituire un detonatore e quindi un allontanamento ideologico alla deformazione insita nell’essere umano, sempre pericolosamente latente.

Il film, attualissimo metaforicamente, ha goduto dello straordinario restauro compiuto dalla Cineteca Nazionale ed Istituto Luce e partecipa al Premio Venezia Classici per il miglior film restaurato. Si avvale di uno stupendo montaggio ad opera di uno dei più grandi (se non il più grande) tra i montatori italiani, Kim Arcalli. La stessa Cavani, la quale temeva che i moltissimi flash-back potessero dare monotonia al film, riconosce che Kim riuscì ad usarli tutti rendendoli indispensabili al racconto, creando la suspence laddove avrebbe potuto regnare la ripetitività. Senza di lui questo film non sarebbe esistito. Vale a dire che questo film, come tutti i film da lui montati, porta realmente anche la sua firma. Con i suoi tagli, scelti con inaudita libertà, il film respira. Ci si augura che questo passaggio a Venezia 75, oltre alla rivisitazione di un’opera estrema, renda onore ad uno straordinario uomo, maestro di cinema.

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