SEMIRAMIDE fra splendore del trono e tenebre della coscienza
Corre l’anno 1823, precisamente il 3 febbraio, quando “Semiramide” di Gioachino Rossini debutta in prima assoluta alla Fenice di Venezia. Il compositore è concentrato sulla decisione già assunta di abbandonare definitivamente l’Italia per raccogliere nuovi allori a Parigi. Ma non c’è dubbio che, con questa che è l’ultima opera delle trentaquattro composte per i teatri italiani, fa tutto quanto è in suo potere per lasciare un buon ricordo e tanta nostalgia nei compatrioti. “Semiramide”, infatti, è opera musicalmente varia, ricca ed imponente, di struttura drammatica ampia ed articolata, ove la cura della vocalità virtuosistica, che viene esaltata, si accompagna ad un’attenzione alla funzione ed ai colori dell’orchestra, oltre che del coro, da giustificare l’appellativo di “tedeschino” appioppato da tempo a Rossini dai nostalgici della scuola napoletana, l’ancien régime musicale.
È stato autorevolmente affermato (Riccardo Bacchelli) che in “Semiramide” la scuola prevale sull’ispirazione. Ma se è così, si tratta di una scuola di livello altissimo, attraverso la quale Rossini mette alla prova con successo la sua sovrana abilità di strumentatore e concertatore, come emerge soprattutto nella ouverture e nei pezzi d’assieme, di mirabile fattura. Nella partitura risaltano, per una certa inquietudine preromantica che li pervade e che fa riflettere sul dramma vissuto da Rossini nella stretta fra le amate convenzioni neoclassiche e la tensione verso il loro superamento, l’apparizione dell’Ombra di Nino, di lugubre solennità, e il quadro della visione di Assur, che ha ricordato a Franco Abbiati il delirio di Don Giovanni e, come anticipazione, addirittura le angosce di Macbeth e di Boris Godunov.
“Semiramide”, melodramma tragico in due atti, è ricavato, ad opera del librettista Gaetano Rossi, dalla tragedia di Voltaire “Sémiramis”, presentata alla Comédie-Francaise nel 1748: una pièce adatta, pur nell’inverosimiglianza delle situazioni, a fornire materiale ad un compositore che sapesse giocare sui grandi effetti e sulle scene madri, cosa che Rossini, come si è accennato, riesce a fare in modo magistrale, ma anche sugli affetti personali. La vicenda orecchia temi della tragedia greca, alla cui ieraticità terribile e fatalista forse vorrebbe richiamarsi.
Semiramide è la leggendaria regina degli Assiri che ha ispirato poeti e letterati nel corso dei secoli, Dante e Metastasio fra i tanti. Nell’antefatto uccide col veleno lo sposo Nino, con la complicità e l’aberrante ispirazione di Assur, principe del sangue di Belo e suo amante, che aspira al trono. Ma, come si vede nel corso dell’opera, Semiramide sceglie Arsace, comandante delle armate, come sposo e successore di Nino, stroncando così le fosche ambizioni di Assur. Poi Arsace si rivela essere Ninia, figlio di Semiramide e di Nino; si sfiora dunque l’incesto, come nel mito di Edipo, messo in musica, fra gli altri, da Stravinskij. Toccherà ovviamente ad Arsace/Ninia vendicarsi della morte del padre ucciso dalla madre e dal suo amante, secondo uno schema che ci è noto dal mito di Elettra, da cui l’opera omonima di Richard Strauss. La differenza è che in Rossini, per evitare di rappresentare un matricidio volontario che sarebbe stato indigesto agli stomaci delicati del pubblico di allora anche se motivato da ragioni di giustizia superiore anzi divina, Semiramide è uccisa per errore dal figlio, che, nel buio dei sotterranei ove è sepolto Nino, trafigge la madre scambiandola per Assur.
La fosca vicenda è accompagnata da apparizioni soprannaturali e terrificanti presagi, che preparano la catarsi finale, nella quale il tradimento di Semiramide è lavato col sangue e l’ordine divino e naturale violato viene ricostituito. Assur, invece, resta vivo, anche se prigioniero. Ma è evidente che, dopo il climax raggiunto con l’uccisione di Semiramide, aggiungere un altro cadavere di rango inferiore sarebbe parso soluzione artificiosa, appiccicata per forza, e quindi meglio far calare il sipario.
Questo mare di musica che è “Semiramide”, alla Fenice è stato dominato, né termine è mai risultato più esatto, dal maestro Riccardo Frizza, che lo ha fatto increspare o tumultuare a seconda dei casi, concertando con accortezza e precisione l’orchestra (eccellente la sua prestazione per compattezza e precisione), il coro guidato da Claudio Marino Moretti (splendido per l’imponente presenza sonora), i solisti. L’edizione integrale che è stata rappresentata alla Fenice, infatti, consta di quattro ore di musica, che richiedono, per essere governate, una mano sicura e salda come quella di Frizza, che, oltretutto, adotta un gesto direttoriale sobrio, preciso, equilibrato, senza inutili esibizionismi dal podio.
Nel cast spicca l’Assur di Alex Esposito, il quale conferma di non essere soltanto un elettrizzante ed ipercinetico dominatore del palcoscenico, su cui si muove a proprio agio come a casa, ma anche un cantante ferrato tecnicamente, saldo vocalmente e dotato di uno strumento dal timbro pieno e compatto, di un bel colore brunito. Inoltre, è continuo il suo impegno, nei recitativi e non solo, nell’evidenziare il significato drammatico della parola cantata, che non viene mai buttata via ma rappresenta sempre l’occasione per uno scavo, una ricerca espressiva. Ma è ormai giunto il momento per mutare registro e smettere di dire e scrivere che Alex Esposito è un istrione di classe ma sa anche cantare: in realtà è un artista maturo e completo, le cui prestazioni, mai banali e sempre di alto livello anche quando possono essere discutibili in qualche loro aspetto, rappresentano un compendio completo e complesso di canto e recitazione, ove un elemento prende forza dall’altro e viceversa.
Diverso il ragionamento da farsi per la protagonista, il soprano Jessica Pratt. L’eccellente artista si fa come sempre apprezzare ed ammirare per il prestigio di un canto aereo ed alato, fondato sul pieno controllo della tecnica vocale e su di un timbro di perlacea bellezza. Ciò che manca, o meglio che è ancora poco affilato, è l’artiglio della primadonna, cioè la capacità di incidere ed emozionare con l’accento perentorio ed emotivamente acceso. Non è un problema di volume vocale, che quando occorre non manca o almeno è sufficiente, ma di penetrazione del significato drammatico della parola, per restituirlo attraverso un fraseggio vario e coinvolgente. In certi momenti, come la grande scena con Assur all’inizio del secondo atto, l’artista trova la via di una comunicazione più calda ed estroversa, ma altrove il suo canto risulta elegante, di classica bellezza, ma espressivamente pallido e un tantino inerte.
Anche l’Arsace di Teresa Iervolino convince ma non completamente. L’emissione, morbida ed omogenea, sembra quasi trattenere il suono anziché lasciarlo libero di espandersi e di correre per il teatro, per cui l’effetto è quello di una vocalità eccessivamente tenuta sotto controllo. Ne esce un personaggio vocalmente delizioso ed appropriato nei duetti e nei concertati, ove la bella colonna sonora mezzosopranile si sposa armoniosamente con le altre voci, e convincente nei passi ove l’effusione degli affetti prevale sull’ardore guerriero; meno altrove, anche per la carenza di quella sfrontatezza vocale ed attoriale che un giovane comandante innamorato deve possedere. Ma l’artista, classe 1989, ha ampi margini di miglioramento per raggiungere quei risultati che le sue capacità e le sue potenzialità le mettono a portata di mano.
Idreno, l’innamorato indiano della principessa Azema, è un ruolo di terrificante difficoltà per qualunque tenore, che, per quanto faccia e per quanta buona volontà ci metta, non potrà mai onorarlo completamente. Così Enea Scala si butta con coraggio pari alla preparazione nelle terribili agilità di forza che costellano la parte, risolvendola al meglio. Certo non tutte risultano nitidamente sgranate e qualche estremo acuto risulta gridato e un po’ fuori controllo, ma come fare di più, anche in considerazione del fatto che il timbro del bravo artista non è di quelli baciati dagli dei, come si dice?
Nei ruoli di fianco, spicca l’Oroe roccioso ed imponente del basso sudcoreano Simon Lim, un artista che sa il fatto suo ed è sempre all’altezza dell’impegno. Il giovanissimo soprano Marta Mari, classe 1992, dà vita con voce bella, piena e sana al personaggio dell’affascinante principessa Azema, contesa da ben tre uomini. Enrico Iviglia è un Mitrane dal bel timbro androgino ma dall’emissione non sempre saldissima. Francesco Milanese è un eccellente Ombra di Nino sul piano vocale quanto su quello scenico.
Tutto questo avviene entro la cornice dello spettacolo, di dignitoso livello ma non memorabile, messo in scena dalla regista Cecilia Ligorio, con la collaborazione di Nicolas Bovey (scene), Marco Piemontese (costumi), Fabio Barettin (luci), Daisy Ransom Phillips (movimenti coreagrafici). L’idea di fondo su cui si regge l’allestimento, vale a dire la contrapposizione, nel personaggio di Semiramide, fra la fastosa grandezza del trono ed il segreto travaglio dell’anima, emerge sin dall’overture, quando compare un sipario nero, subito sostituito da uno dorato.
Il concetto viene confermato e sviluppato nel corso dei due atti. Il primo è immerso in un’atmosfera di fasto e di splendore, restituita dal colore oro che domina ovunque e viene esaltato dai costumi bianchi vestiti dalle masse. Che poi l’effetto prodotto da questi ultimi non sia dei più esaltanti, richiamando vagamente l’immagine dei frequentatori di una sauna oppure, a causa dei copricapi, di un convegno di cuochi, è ininfluente ai fini del messaggio, che giunge chiaro e si riferisce alla regalità di Semiramide, allo splendore della sua corte. La scena, quasi vuota salvo per qualche orpello decorativo, con una scalinata al centro che sale verso un praticabile, non disturba in nulla la centralità del messaggio che si vuole trasmettere.
Non convince, però, l’apparizione dell’Ombra di Nino, che è costretta ad entrare in scena da un’apertura sul pavimento del palcoscenico, facendo un ingresso un po’ goffo ed impacciato, che non ha nulla di terrificante e grandioso, per cui tutta la drammaticità della situazione sta nella musica e nel canto. Tuttavia la realizzazione del personaggio, si intende trucco e travestimento, incedere lento ed inquietante, risulta particolarmente riuscita, mentre altrettanto non si può dire degli altri. I costumi atemporali, per esempio, a simboleggiare la perenne attualità della vicenda imperniata sul significato del potere, non sono particolarmente belli e significativi, a cominciare da quello di Arsace. Discutibili anche la caratterizzazione di Oroe, il possente capo dei magi ridotto come un mendicante cieco male in arnese, e di Assur, zoppo e deforme, come se i perversi dovessero necessariamente essere brutti e non fosse più insidiosa una malvagità occultata sotto apparenze gradevoli.
Col secondo atto cambia tutto. Dalla grandiosa luminosità della corona si passa agli oscuri segreti occultati nel cuore di Semiramide, la cui coscienza è gravata dall’uccisione dello sposo Nino. Quindi tutto è nero: dai tendaggi che chiudono in fondo il palcoscenico ai costumi, con i coristi che vestono anche dei veli a coprire il volto. È apparsa poco indovinata la realizzazione della grande scena della visione di Assur, circondato da tre ballerine che lo disturbano nell’espressione di quel terrore e di quel rimorso che dovrebbero avere come unico interlocutore, per quanto tacito, l’Ombra di Nino (in generale le coreografie sono gradevoli ma invadenti). Poco felice anche l’idea di costringere Assur, durante la successiva cabaletta nella quale ritrova la tradizionale protervia, a pugnalare tutti coloro che gli stanno attorno: l’effetto è grottesco e non aggiunge nulla, anzi, a ciò che si sa della ferocia del personaggio.
Il pubblico che ha resistito sino alla fine delle 4 ore e 40 minuti di spettacolo, la maggioranza a dire il vero, ha riconosciuto a tutti un successo caldissimo.
Spettacolo di martedì 23 ottobre
Adolfo Andrighetti