“Werther” rivedibile alla Fenice
Il romanzo, in effetti, è una straordinaria e precoce espressione (la pubblicazione è del 1774) della prorompente sensibilità romantica. È la creazione di un genio capace di variare di continuo il fraseggio, passando senza soluzione di continuità dal tono idillico a quello disperato, dal fiducioso al risentito, dal sublime al colloquiale. Con arte magistrale, l’Autore sa decantare la pienezza emotiva senza però raffreddarla, variando tempi e toni in modo tale che l’uniformità dell’argomento non ingeneri monotonia. Ogni parola suona come pronunciata nel momento stesso in cui viene letta; e sembra di sentire la voce del protagonista che si confida, e spera, e dispera, e ogni volta contiene una vibrazione diversa, un accento nuovo, tanto convincente è il respiro di verità che Goethe vi sa infondere.
L’opera di Massenet, rappresentata per la prima volta alla Hofoper di Vienna il 16 febbraio 1892 e in questi giorni alla Fenice, regge il confronto con tanto monumento, di cui restituisce sensibilità ed atmosfere con grande felicità artistica. Merito dell’abilità del compositore nel giocare, soprattutto attraverso la raffinata strumentazione, con quei colori pastello, quelle sfumature delicate interrotte di tanto in tanto da slanci ardenti di passione, che sono particolarmente adatti a restituire sul piano musicale l’universo di Werther. Nell’opera, poi, sono messi in evidenza alcuni temi che il romanzo sfiora soltanto, come la passione di Charlotte per il protagonista, oppure non prende nemmeno in considerazione, come l’atmosfera natalizia. Questa è affidata da Massenet soprattutto ai cori di voci bianche e gli permette di giocare efficacemente sul contrasto fra la serenità e l’innocenza che spirano dalle melodie intonate dalle voci infantili e la tragicità del destino di solitudine e di abbandono cui il giovane si sente condannato.
In effetti, l’opera mette bene in risalto come Werther sia un diverso, un disadattato in fondo, che giunge, con la sua sensibilità estrema ed esasperata, a sconvolgere un mondo idilliaco, ben rappresentato in primo luogo dalla calda poesia del Natale. In questo mondo quietamente borghese, anche il dolore, come quello legato alla morte della madre di Charlotte, è come pacificato, sedato, all’interno di una serena armonia familiare, di un equilibrio fatto di affetti quotidiani, di piccoli piaceri onesti goduti in compagnia.
Ma che ha a che fare Werther con questo mondo semplice, assestato, come anestetizzato? Lui è l’uomo della passione assoluta, totalizzante, che trova un’alternativa solo in una realtà altrettanto assoluta, cioè la morte, secondo il grande binomio romantico su cui la cultura ottocentesca si è sbizzarrita in tutte le sue espressioni artistiche.
Per Werther l’amore della donna desiderata e idealizzata è tutto; è un universo in cui smarrirsi estatico, una dimensione ineffabile che ha connotati mistici, perché basta a se stessa e non ha bisogno d’altro. L’aforisma di Santa Teresa d’Avila, per cui chi ha Dio ha tutto, si adatta perfettamente a questa sensibilità; basta sostituire il nome del Supremo con quello della persona amata. Il contrasto fra l’alto sentire del giovane, esasperato e sublime, folle e nobile nello stesso tempo, e la tranquilla atmosfera di un mondo chiuso, un po’ gretto forse, ma solido e sereno, non può che essere destabilizzante per gli equilibri consolidati, rappresentati dal matrimonio tra Albert e Charlotte. Quest’ultima, nonostante la resistenza che oppone con tutte le proprie forze, si innamora perdutamente di Werther e questi, nell’impossibilità di possedere un assoluto, cioè la donna amata, sceglie l’altro a disposizione: la morte.
Nella concezione della regista Rosetta Cucchi, che aveva suscitato qualche perplessità nella “Favorite” di Donizetti mentre questa volta coglie il bersaglio, Werther è irresistibilmente attratto da quel mondo statico ma affettuoso e saldamente strutturato, di cui Charlotte è vista come l’incarnazione idealizzata e seducente insieme. L’immaginazione del giovane è catturata dalla visione di un futuro armonioso, riscaldato dal tepore di un focolare il cui angelo è Charlotte. Un sogno dorato ed adolescenziale lo suggestiona e lo illude: quello di una famiglia perfetta, chiusa in un circuito perpetuo di amore, raccolta sotto le ali protettrici di una donna ideale, moglie e madre esemplare, nel cui abbraccio consumare uno dopo l’altro i giorni della vita.
Per rappresentare questo assunto, la regista sceglie un simbolo doppio e complementare: quello della casa, vista come un luogo caldo e luminoso, culla degli affetti più teneri, e, al suo interno o accanto, la coppia felice e appagata, con tanto di bambino. Sono tutte visioni create ed alimentate dalla fantasia di Werther, che è presentato all’inizio dell’opera mentre, subito prima del suicidio, rivede tutta la sua storia d’amore con Charlotte; visioni frutto della sua nostalgia struggente per quello che avrebbe potuto essere e non è stato, per l’occasione della vita perduta per sempre.
Ma, mentre la coppia rimane solo nell’immaginazione di Werther, il simbolo della casa diventa concreto in quella del Bailli (borgomastro), il padre di Charlotte. Di quella abitazione Werther chiede informazioni nel primo atto ad un bimbo, che proprio con una casetta in miniatura si sta baloccando. E dalla casa del Bailli, oltre che da Charlotte stessa, che ne fa parte, sarà separato da una cortina, quando dichiarerà, sempre nel primo atto, il proprio amore alla donna di cui si è innamorato con bruciante rapidità. Nel secondo atto, la stessa funzione simbolica è svolta dalla chiesa, casa di Dio, ma, prima ancora, per quanto ci interessa qui, luogo ove le persone si incontrano, si riconoscono, creano una comunità. E dalla casa/chiesa, oltre che da Charlotte che ne è parte integrante, Werther sarà separato ancora una volta dalla stessa cortina del primo atto.
Il gioco dei simboli è completato dal ritratto della madre di Charlotte, la cui presenza incombente si indebolisce nel corso dell’opera, fino a quando la ragazza lo scaglia lontano da sé, con gesto rabbioso, durante il terzo atto. La madre, che in punto di morte ha vincolato Charlotte al giuramento che avrebbe sposato Albert, rappresenta il dovere gelido e disumano, l’imperativo categorico che soffoca e blocca la vita. Con il progredire della vicenda, la ragazza prende coscienza sempre più lucidamente di quanto le sia costato il rispetto del giuramento e anela ad una nuova libertà, allontanando da sé quel ritratto che è diventato il simbolo di una costrizione crudele. Ma è ormai troppo tardi: è già la sposa di Albert, la sua vita è segnata irrimediabilmente da quel matrimonio voluto non per amore ma per senso del dovere.
Insomma, la pertinenza della concezione registica e la chiarezza della sua realizzazione teatrale attraverso simboli facilmente decodificabili, sono le caratteristiche spiccate di questo spettacolo proveniente da Bologna, fondato su di un’idea originale ma non cervellotica, bensì tratta da spunti suggeriti dall’opera di Massenet. La scenografia realistica e lineare di Tiziano Santi, i costumi appropriati, moderni senza una precisa collocazione temporale, di Claudia Pernigotti, le luci discrete di Daniele Naldi, sono funzionali alla regia e ne completano efficacemente le intenzioni.
Se qualcosa manca a questo spettacolo, nell’insieme indovinato e riuscito, per decollare definitivamente e mettere in mostra tutte le proprie qualità, sono forse degli interpreti di caratura più adeguata rispetto a quelli visti ed ascoltati alla Fenice.
Sia chiaro: Sonia Ganassi è l’eccellente artista che conosciamo e canta sempre molto bene. Il suo educatissimo strumento viene messo al servizio di intenzioni esecutive giuste ed appropriate, con esiti di grande profilo quando la temperatura drammatica sale. Rimarchevoli, poi, gli accenti colmi di dolcezza e tenerezza con cui si rivolge a Werther morente nella scena finale dell’opera. Ma la sua Charlotte non possiede la freschezza, il fascino adolescenziale, l’ingenua sensualità, che rappresentano i caratteri distintivi del personaggio. Si può imputarglielo? Certo che no. Ma, in una valutazione complessiva, questo aspetto non può essere ignorato per limitarsi a tessere i (doverosi) elogi della voce.
Sul Werther del tenore francese Sébastien Guèze, subentrato all’ultimo momento all’indisposto Piero Pretti per salvare la rappresentazione del 29 gennaio cui si riferiscono queste note, è corretto astenersi da ogni valutazione critica. Diciamo solo che si mostra coraggioso, intenso ed appassionato, meritandosi i calorosi applausi del pubblico ed uno speciale ringraziamento da parte del maestro Tourniaire a fine recita. Dalla sua anche il phisique du role, la figura snella e nervosa, il ciuffo impertinente.
Il phisique du role ce l’ha anche il baritono tedesco Simon Schnorr, ma non basta. Il suo Albert è apparso pallido, sbiadito, qualche volta problematico nell’intonazione.
La Sophie del soprano francese Pauline Rouillard è graziosa e frizzante, in una parola deliziosa, ma non è servita adeguatamente da una vocina esile esile, segnata da un vibratino che dispiace.
Armando Gabba è l’artista bravo, affidabile e simpatico che il pubblico della Fenice ha imparato da tempo a conoscere ed apprezzare. Lo conferma anche in questa occasione, ma quello del Bailli è ruolo da basso, mentre Gabba è baritono: in qualche passaggio lo si nota.
Il basso-baritono William Corrò, che è Johann, e il tenore Christian Collia, Schmidt, formano una coppia di buontemponi spigliata e divertente come si conviene. Meglio il primo, però, più incisivo vocalmente, rispetto al secondo, alquanto flebile.
Apprezzabile l’apporto dei cori, sia quello della Fenice diretto da Claudio Marino Moretti, sia il Kolbe Children’s Choir condotto da Alessandro Toffolo.
Sul podio il maestro Guillaume Tourniaire adotta tempi tendenzialmente stretti e va al sodo, evitando di indugiare sui momenti più larmoyant della partitura e cercando, invece, l’intensità drammatica anche attraverso sonorità piene, robuste.
Al termine dello spettacolo, un teatro stranamente con diversi vuoti ha salutato con cortese consenso tutti gli interpreti.
Adolfo Andrighetti