Al Malibran, Mozart ci spiega i meccanismi del Potere
La partitura era già pronta per onorare il vescovo di Salisburgo in carica, il conte Sigismund von Schrattenbach, quando questi passò a miglior vita, per cui fu prontamente riciclata per festeggiare il nuovo signore, quel Hieronymus Colloredo che rivestì una parte non secondaria nella vita personale e professionale del giovane Mozart. L’intento celebrativo del lavoro emerge con tutta evidenza nella Licenza conclusiva, ove si ammette che l’elogio delle virtù morali e civili di Scipione Emiliano, il distruttore di Cartagine, è solo un pretesto per cantare analoghe virtù in Girolamo, cioè Hieronymus Colloredo, al quale i versi si rivolgono direttamente. La curiosità è che la lettura ai raggi ultravioletti permette di scorgere nella partitura autografa, sotto il nome di Colloredo, cioè Gerolamo, quello, raschiato, del precedente arcivescovo, al quale il lavoro era in origine destinato: Sigismundo.
Ma, come si accennava, l’intento d’occasione non sembra inibire la fresca vena del sedicenne Mozart, che all’epoca vantava già un curriculum di tutto rispetto, in cui figuravano, per limitarci alle opere, “La finta semplice”, “Bastien und Bastienne”, “Mitridate re di Ponto”, “Ascanio in Alba”. Il “Sogno”, in effetti, mostra, se non una spiccata originalità di invenzione, almeno un mestiere già solidissimo e perfettamente padroneggiato, una mano sicura ed elegante, un artigianato di alta classe, che permette al ragazzo geniale di conseguire con precisione e con apparente facilità tutti gli effetti desiderati. Si veda, in proposito, l’ouverture, brillante ed abilmente strutturata, e, in generale, l’accompagnamento - vivacissimo e ammirevole per varietà di soluzioni anche grazie all’abilissima orchestrazione - delle arie, fra le quali citeremo quella della Fortuna, “A chi serena io miro”, e, soprattutto, quella della Costanza, “Biancheggia in mar lo scoglio”.
Una creatività così disinvolta e sbrigliata è tanto più ammirevole in quanto applicata ad un testo paludato ed ingessato, che Metastasio trae da un famoso brano del “De republica” di Cicerone, appunto il “Somnium Scipionis”. Il libretto racconta di Scipione Emiliano che, addormentatosi nella reggia dell’alleato Massinissa, si trova trasportato nel regno dei cieli, ove è chiamato a scegliere fra la Fortuna, protettrice seduttiva ma instabile, e la Costanza, severa garante di sorti più alte anche se meno appariscenti. L’eroe, naturalmente, disprezza le lusinghe aleatorie della Fortuna, ed abbraccia il destino impegnativo ma nobile e virtuoso che gli promette la Costanza. Con l’occasione, al protagonista viene mostrata, in conformità al canone edificante e moralistico che contraddistingue il testo, la sublimità delle armonie celesti contrapposta alla meschinità di quel puntolino smarrito nell’immensità che è la terra. I “maggiori” del protagonista, poi, i già citati Publio ed Emilio, lo confermano nella vanità delle passioni di questo mondo, a fronte dell’alto e glorioso destino che lo attende come distruttore di Cartagine.
La nuova produzione proposta al Teatro Malibran fa parte del programma di collaborazione, che si è svolto con risultati incoraggianti in questi anni, tra la Fenice e l’Accademia di Belle Arti di Venezia. L’idea base del tutor di regia, Elena Barbalich, è quella di fare de “Il sogno di Scipione” una parabola moderna e insieme atemporale sul potere, che gli uomini subiscono e di cui pure hanno bisogno per la loro stessa sussistenza; quindi lo alimentano, lo assecondano, infine lo onorano nella persona che se ne fa carico. È, in sé, un’intuizione azzeccata, un modo intelligente per conferire un contenuto concettuale ed uno spessore drammatico ad un lavoro che è povero sotto entrambi i punti di vista. Da un lato, infatti, l’ideale illuministico del sovrano o duce magnanimo e saggio, che Metastasio ci ripropone ispirandosi a Cicerone, è quanto di più lontano dalla sensibilità contemporanea; dall’altro, quella che viene definita dagli autori azione teatrale, in realtà è priva sia di azione sia di teatralità, per cui la sua messinscena richiede che vi si immetta una vita drammatica altrimenti assente.
Così, al Malibran, si vede in scena il protagonista Scipione che barcolla e incespica qua e là, stordito e affranto dal peso delle circostanze che piombano su di lui e lo spingono a farsi carico del potere; fino ad assumere, nella parte conclusiva, l’atteggiamento di una marionetta, con tanto di manto regale, scettro e corona, ma guidata da “altri”, che, per ragioni ignote, vogliono che sia lui l’eletto, l’unto. Questi “altri”, assolutamente misteriosi, stanno sempre lì, attorno a Scipione, lo incalzano, lo pressano, ora mascherati, a confermare l’anonimato di queste forze che lo vogliono al posto di comando, ora con un numero dietro le spalle, come dei carcerati, a dire che chi manovra il potere ne è anche manovrato diventandone prigioniero, in un gioco al massacro che non conosce vincitori.
Ebbene, questa idea, di per sé apprezzabile, avrebbe avuto bisogno di una realizzazione un po’ meno confusa e pasticciata di quella che si è vista sul palcoscenico del Malibran, ove il nucleo centrale del dramma, così come concepito da Elena Barbalich, raramente è stato messo a fuoco con efficacia e capacità di sintesi. Su quel nucleo bisognava puntare, abbandonando il superfluo (per es., che c’entra Scipione che spara a Publio?) ed evitando così la frammentazione, la dispersione del messaggio. Insomma, lo spettacolo non è da buttare, ma avrebbe bisogno di un lavoro di rifinitura e di ripulitura per diventare più chiaro, più compatto, più semplice. Né possono risolvere la situazione le scene ideate da Francesco Cocco, imperniate su di una sorta di alta cancellata che delimita lo spazio sul fondo e sulle quinte, o i costumi, peraltro funzionali, di Davide Tonolli, o le luci, così artificiali, crude e violente, di Fabio Barettin.
La parte musicale dello spettacolo è affidata a Federico Maria Sardelli, autorità riconosciuta nel campo della musica barocca e del settecento in generale. Il maestro conduce con competenza, guidando con attenzione e sicurezza i solisti. La sua lettura, sempre apprezzabile per vitalità e teatralità, sembra puntare su sonorità piene e corpose, che valorizzano i momenti drammatici della partitura, rinunciando a qualcosa in termini di leggerezza e trasparenza.
Il cast mostra, nel suo complesso, affiatamento e pertinenza stilistica. Più compatto il reparto femminile, con voci piccole ma condotte egregiamente e di timbro gradevole. Sono i soprani Francesca Boncompagni, una Costanza che ha modo di brillare nella difficile e bellissima aria “Biancheggia in mar lo scoglio”, Bernarda Bobro (Fortuna), Rui Hoshina (Licenza). Degli uomini, tutti tenori, si può dire che Valentino Buzza, Scipione, ha voce per farsi sentire, ma deve curare con più attenzione le agilità di forza e la salita all’acuto. Il Publio di Emanuele d’Aguanno e l’Emilio di Luca Cervoni, pur lasciando desiderare in alcuni momenti un surplus di volume e risonanza, danno però prova di correttezza ed assoluta dignità artistica. Da citare, come sempre con note positive, anche il coro della Fenice guidato da Claudio Marino Moretti.
Al termine della serale (12.2.2019) cui si riferiscono queste note, il pubblico ha riservato un amichevole consenso a tutti gli interpreti.
Adolfo Andrighetti
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