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È festa alla Fenice con “L’italiana in Algeri” di Rossini

07/03/2019
È festa alla Fenice con “L’italiana in Algeri” di RossiniNella collana delle grandi opere che furono rappresentate per la prima volta a Venezia, un posto d’onore va riservato a “L’italiana in Algeri” (Teatro San Benedetto, 22.5.1813), il “dramma giocoso” in cui Rossini raggiunge l’apice della comicità pura, senza aggettivi e senza freni: nella produzione propria, certo, ma anche nella storia di tutto il teatro in musica, che forse non ha mai conosciuto un divertissement così libero da ogni tipo di preoccupazione che non sia quello di esilarare e stupire. “L’italiana”, infatti, su libretto di Angelo Anelli, rappresenta un tuffo senza rete nel nonsense, nell’assurdo, nel grottesco, sostenuto ed alimentato da una musica trascinante, scintillante, di sbalorditiva freschezza.
Il vortice del divertimento afferra dalle prime note e non molla più, esaltandosi non solo nei luoghi musicali a ciò deputati, ma anche in quelli che lasciano spazio ad altri motivi di ispirazione, sia perché il contrasto ottiene sempre il risultato di sottolineare il tema dominante, sia perché, in quest’opera, anche il sentimentalismo, la sensualità, il ripiegamento malinconico, l’amor patrio, vengono proposti con una strizzatina d’occhi, con un ammiccamento che invita a non prendere troppo sul serio ciò che si ascolta.
Insomma, ne “L’italiana in Algeri” viene operato un trasgressivo rovesciamento di ogni punto di riferimento, per cui vero e falso si confondono, giusto e sbagliato si mischiano, il reale si scioglie nel surreale, ciò che sembra serio si rivela faceto e viceversa, in una irresistibile sarabanda che viene condotta al ritmo indiavolato di un cartone animato e mozza il respiro ed esalta per il torrente in piena di una musica che, nel genere, non conosce rivali.
E l’opera, nonostante o forse proprio a causa della sua frenetica vitalità, piacque da subito, anche per merito della compagnia, che annoverava due pezzi da novanta come il contralto Maria Marcolini (Isabella) ed il basso Filippo Galli (Mustafà). E piacque anche se il libretto, che Rossini volle sottoporre ad alcune modifiche, era già noto sulla piazza milanese, essendo stato messo in scena con le musiche di Luigi Mosca alla Scala nel 1808; e anche se – benedetta fretta, bisognò far tutto in poco più di venti giorni! – fu necessario affidare la scrittura dei recitativi e almeno di un’aria, la graziosa “Le femmine d’Italia” di Haly, alla penna di un altro compositore rimasto anonimo.

Lo spettacolo in scena alla Fenice, un nuovo allestimento che rappresenta la proposta del Teatro per il Carnevale 2019, corrisponde in pieno a quella che ormai si potrebbe chiamare “la cifra di Bepi Morassi”, regista ben noto al pubblico veneziano per una serie di fortunati allestimenti rossiniani nel genere comico: un’ambientazione simpatica e stuzzicante, originale senza esagerazioni, funzionale ad accogliere una movimentazione briosa e a tratti frenetica dei personaggi nonché una serie infinita di trovate e trovatine di varia riuscita ma nel complesso divertenti e di buon gusto. Anche in questa “Italiana in Algeri” se ne sono viste talmente tante da non poterle non solo menzionare, ma neppure ricordare con esattezza. Ma ciò che conta è che, secondo appunto la “cifra Morassi”, lo spettacolo nel suo complesso si snoda scorrevole e ben oliato, con la pretesa fondamentale e sempre centrata di divertire.
La vicenda si finge in uno strampalato, del tutto improbabile inizio novecento; un mondo più simile ad un cartone animato che alla realtà – molto adatto ad ambientare una “follia organizzata” come Stendhal definì “L’italiana in Algeri” – nel quale può succedere ed effettivamente succede di tutto, a cominciare dall’assunto di partenza: un signorotto turco, tronfio e prepotente, che cattura sulla propria nave una diva del cinema muto, per poi incapricciarsi di lei e, da carceriere, diventare rapidamente carcerato, nel senso che la bella “agli sciocchi fa far quello che vuole”, come recita il libretto.
L’impianto scenografico, di Massimo Checchetto, fornisce alla regia l’ambiente più adatto ad esprimersi con quella fantasia sbrigliata e a tratti sovrabbondante che la contraddistingue. Nel primo atto vediamo la fiancata di una grande nave, che più avanti scivola via lasciando il posto allo spaccato degli alloggi del bey all’interno dello scafo. Questo spazio, situato su due piani a comporre una serie di cabine attorno al salone centrale, viene sfruttato con abilità nel corso del secondo atto, permettendo un gioco scenico dilatato e moltiplicato ad esaltarne la surreale mobilità. Nel finale lo spaccato della lussuosa suite del bey si solleva per lasciare spazio alla stiva, ove, con uno spunto realistico la cui pateticità è attenuata dalla presenza caricaturale di Taddeo, vediamo gli italiani pronti ad emigrare, con tanto di bagagli e di foto delle famiglie lasciate in patria. Più avanti si ritorna ai vecchi, buoni fondali, sempre d’effetto se usati con intelligenza: l’uno, che riproduce un’architettura in stile orientaleggiante, a fare da cornice al giuramento del pappataci; l’altro, con un panorama marino e la nave, questa volta a sagoma intera, ad accogliere il congedo dell’italiana, che abbandona Algeri per ritornare a Livorno.
I costumi, di Carlos Tieppo, sono i più adatti, fra suggestioni turchesche e spunti coloniali, per una messinscena così spudoratamente carnevalesca. Funzionali al progetto complessivo anche le luci di Vilmo Furian.

Per quanto riguarda la parte musicale, dopo l’attacco ci si dimentica rapidamente della presenza del maestro Giancarlo Andretta sul podio, tanto la sua direzione afferra l’ascoltatore e lo trascina con sé attraverso il continuo scoperchiamento di scatole cinesi, in ciascuna delle quali spunta una trovata atta a sorprendere con la sua geniale stravaganza, che l’opera presenta. Insomma, si guarda e si ascolta, rendendosi conto che fra quello che si vede e quello che scaturisce dal golfo mistico non c’è soluzione di continuità, tanto la lettura di Andretta è ricca di teatralità, di vita, e sa coinvolgere il pubblico.
Di ottimo livello anche il cast, ove il mezzosoprano palermitano Chiara Amarù, nel ruolo di Isabella, dimostra di possedere tutti i fondamentali che devono caratterizzare il contralto rossiniano: bel colore scuro ed ambrato del timbro, ampiezza e risonanza della zona grave, sicurezza nelle agilità, capacità di cantare morbido sul fiato quando occorre, gioco scenico spigliato ed autorevole. Qualche volta si vorrebbe un po’ più di volume, a rendere più imperativa la volontà della terribile fanciulla.
Il Mustafà del baritono Simone Alberghini è cantato con gusto, proprietà ed eleganza, secondo le migliori qualità dell’artista, ben noto al pubblico della Fenice. Di tanto in tanto, però, si desidererebbe un surplus di quella vena tronfia e gradassa che caratterizza il personaggio, la cui interpretazione dovrebbe essere giocata sempre sulla sottile linea di demarcazione fra l’alterigia smaccata, ma non priva di una sua grandiosità, del bey e la buffoneria del pappataci. Insomma, si ha l’impressione che questo Mustafà sia troppo trattenuto, troppo prudente, forse nella preoccupazione di non esagerare nelle buffonerie. Ma così si ha un eccesso di misura, di buona educazione, in un personaggio che richiederebbe una lettura più sanguigna, più colorita, più inclinata verso il grottesco. All’attivo dell’artista, comunque, un’eccellente esecuzione della difficile aria “Già d’insolito ardore nel petto”, ove ha modo di affermare, oltre al bel timbro brunito, una indiscutibile civiltà musicale.
Il messinese Antonino Siragusa, nel ruolo di Lindoro, mostra di non aver perso nulla delle belle qualità che ne hanno fatto uno dei maggiori tenori rossiniani degli ultimi vent’anni. Sin dalla cavatina di ingresso, l’ammaliante “Languir per una bella”, arditamente variata nel da capo, mette in mostra il meglio del suo arsenale: piena padronanza del ruolo e della vocalità, bel timbro preziosamente smaltato, facilità nell’acuto, tranquilla esecuzione della coloratura. Insomma, un artista scafato e di classe, che si presenta in scena sicuro del fatto suo e quindi può divertirsi e divertire senza problemi, grazie anche ad una spigliata partecipazione al gioco scenico.
Da ritenersi esemplare la caratterizzazione di Taddeo offerta dal baritono Omar Montanari, qui alla migliore delle sue numerose interpretazioni alla Fenice, dicitore finissimo ed incisivo, padrone del linguaggio comico rossiniano e del vorticoso ingranaggio musicale dell’”Italiana”, nel quale mostra di trovarsi completamente a proprio agio. A ciò si aggiunga una presenza sul palcoscenico vispa e divertita ma senza esagerazioni e cadute di gusto, ad alludere con garbo più che ad esibire in maniera plateale.
Bene tutti i ruoli secondari: L’Haly del basso-baritono veneziano William Corrò, che esegue la sua aria “Le femmine d’Italia” con emissione morbida e rotonda; l’Elvira vocalmente partecipe e scenicamente coinvolta del giovane soprano vicentino Giulia Bolcato; la Zulma dal bel timbro scuro del mezzosoprano polesano Chiara Brunello. Ed un evviva per il coro della Fenice diretto da Claudio Marino Moretti, che passa da un repertorio all’altro e da un’epoca all’altra variando stile e lingua, ma mostrando sempre un’ammirevole compattezza ed omogeneità.

Alla fine, è festa per tutti alla serale del 5 marzo. Ed è giusto così, sia perché va riconosciuto il buon esito complessivo dello spettacolo, sia perché Carnevale va salutato in allegria, nella partecipazione ad un rito collettivo che vuole spensieratezza.

Adolfo Andrighetti

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