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Al Malibran un Vivaldi sconosciuto eppure fresco e fragrante

06/05/2019
Al Malibran un Vivaldi sconosciuto eppure fresco e fragrante“Dorilla in Tempe”, secondo il libretto del veneziano Antonio Maria Lucchini, oppure più semplicemente “La Dorilla”, come riporta la partitura autografa secondo l’uso di Vivaldi di premettere l’articolo determinativo al titolo delle proprie opere, andò in scena il 9 novembre 1726 al Teatro Sant’Angelo di Venezia. È un periodo particolarmente fecondo ed impegnativo per il musicista, che alterna un’intensa attività di compositore con quella di impresario – ma lui si definiva direttore delle opere in musica – dello stesso Teatro Sant’Angelo. Ed è proprio con questo incarico, oltre che con la prassi costante e diffusa nell’epoca, che si spiega la trasformazione della partitura originale nell’unica nota oggi, un pasticcio in cui otto arie della prima rappresentazione sono sostituite con altrettanti pezzi di autori coevi soprattutto di scuola napoletana: Johann Adolf Hasse (“Mi lusinga il dolce affetto”, “Saprò ben con petto forte”, “Non ha più pace”), Geminiano Giacomelli (“Rete, lacci e strali”, “Bel piacer saria d’un core”, “Non vo’ che un infedele”), Domenico Sarro (“Se ostinata a me resisti”), Leonardo Leo (“Vorrei dai lacci sciogliere”).
Che cosa, infatti, avrebbe potuto convincere Vivaldi, all’epoca già celebre, a rinunciare ad una parte della musica da lui già scritta e accolta da un grande successo, per riproporla contaminata, diremmo oggi, ma allora si sarebbe detto arricchita, con musica di altri autori concorrenti? Si potrebbe rispondere: la volontà di confermare il successo ottenuto come compositore con uno, altrettanto grande, da conseguirsi come impresario, venendo incontro ai gusti del pubblico che era abituato ai pasticci e non solo non se ne scandalizzava, ma li accoglieva con piacere, con soddisfazione, soprattutto in apertura di stagione. Perché all’epoca, giova ribadirlo, era il palcoscenico a conferire vita e significato allo spettacolo musicale: tutto quello che avveniva prima – autoimprestiti da parte dello stesso compositore, prestiti da altri compositori, rimaneggiamenti e adattamenti vari per venire incontro alle esigenze dei cantanti, dei teatri, delle piazze diverse ecc. ecc. – era ininfluente. Ciò che contava era quello che si ascoltava e si vedeva in scena, se era meraviglioso, sorprendente, commovente, oppure no. Ed è così che anche oggi viene rappresentato, sotto il titolo di “Dorilla in Tempe”, un pasticcio, quello presentato il 2 febbraio del 1734 ancora al Teatro Sant’Angelo di Venezia.

“Dorilla in Tempe” è un melodramma eroico-pastorale in tre atti. La definizione individua e circoscrive con esattezza la drammaturgia, che prevede, intrecciati con i consueti intrighi sentimentali, momenti ad alta tensione, riconducibili al tradizionale contrasto fra la purezza dei sentimenti e la logica del potere. Può essere il potere soprannaturale, rappresentato dal mostro marino Pitone, al quale l’oracolo decide si debba sacrificare la protagonista per salvare la città di Tempe; oppure il potere umano, ammantato comunque anch’esso da un’aura di divinità, incarnato da Admeto re di Tessaglia, che dispone prima il sacrificio della figlia per salvare la collettività e poi la condanna a morte del suo innamorato, il pastore Elmiro, che vuole sposarla contro la volontà del sovrano. Ma c’è anche un potere che assume i caratteri dell’autorità benevola, quello di Apollo, che, dopo aver partecipato direttamente alla vicenda come innamorato della protagonista, giunge alla fine da deus ex machina a sciogliere ogni nodo e a comporre ogni contrasto.
L’intreccio eroico-sentimentale si svolge, come dice appunto la dicitura dell’opera, all’interno di un classico ambiente pastorale, segnato tradizionalmente dalla pace e dalla serenità, prima turbato dai drammatici avvenimenti e poi restituito alla sua condizione naturale dall’intervento risolutore di Apollo. La natura, complice anche la stagione primaverile, fa da sfondo ridente ed amichevole. E a proposito di primavera, è interessante notare come il tema della celebre “Primavera” di Vivaldi - il primo concerto della raccolta “Il cimento dell’armonia e dell’inventione”, precedente alla “Dorilla” perché pubblicata nel 1725 – compare per due volte proprio all’inizio del melodramma: prima nella sinfonia e poi nel coro introduttivo.

“Dorilla in Tempe”, una nuova produzione in scena al Teatro Malibran, rappresenta l’ultimo esito del meritorio percorso intrapreso dalla Fenice nella riscoperta del Vivaldi operista; un percorso che ha preso avvio nel 2007 con la messa in scena di “Ercole sul Termodonte” e “Bajazet”, per poi proseguire nel 2015 con la rappresentazione in forma scenica dell’oratorio “Juditha triumphans” e quindi consolidarsi, con cadenza annuale, nel 2018 con “Orlando furioso” e, nella presente stagione, appunto con “La Dorilla”.
L’esecuzione di quest’ultima, al Malibran, è stata accolta da un caldissimo successo di pubblico, particolarmente apprezzabile e quasi sorprendente in quanto tributato non ad un’opera di repertorio, ma ad uno sconosciuto lavoro dell’epoca barocca: un esito che ci si augura possa attribuirsi anche ad una positiva evoluzione del gusto degli appassionati d’opera, perché non si adagi sul risaputo ma possa aprirsi con curiosità e disponibilità a tutto ciò che il teatro in musica ha offerto fino ad oggi.
Il grande successo va ascritto in primo luogo alla eccellente qualità dell’esecuzione musicale. Il maestro Diego Fasolis, ottimamente coadiuvato dall’Orchestra della Fenice integrata per il basso continuo da elementi dell’ensemble “I barocchisti” da lui stesso guidati, ha dato il meglio di sé e della sua prestigiosa esperienza di antichista, riscoprendo la freschezza, la vitalità e l’appeal di una partitura affascinante ma appartenente ad un universo culturale e artistico affatto distante dal nostro. Per rinnovare l’interesse attorno a questo repertorio è necessario farne emergere tutta la bellezza estrosa e rutilante, nonché la strepitosa energia ritmica. È ciò che riesce a Fasolis, il quale ci dimostra che, nell’arte, il tempo è un fattore relativo, se si possiede la sensibilità per enucleare l’anima di un’opera e la perizia tecnica per restituirla, sorprendentemente fresca, al pubblico.
Di alto livello, omogeneo e perfettamente affiatato, il cast, che si impone prima di tutto per pertinenza stilistica e preparazione musicale, ma anche per l’apprezzabile qualità generale delle voci, che risuonano bravamente nel teatro con suoni pieni, belli e rotondi. Aiuta, e come, ai fini dell’esito complessivo della prestazione, essere concertati, sostenuti ed accompagnati da una mano sicura come quella di Fasolis. Ma quanta bravura ed applicazione e talento si incontrano in questi artisti!
La menzione d’onore va riconosciuta, a giudizio di chi scrive, all’Elmiro del mezzosoprano Lucia Cirillo, dall’emissione sempre salda ed omogenea, dalla appassionata sensibilità espressiva, dalla ammirevole perfezione esecutiva. Non sono da meno la Dorilla del mezzosoprano Manuela Custer, che emerge per la sicurezza con cui esegue le proprie arie e il Nomio-Apollo, superbo, grandioso, vocalmente assertivo, del mezzosoprano USA Véronique Valdés.
Al terzetto che si potrebbe definire nobile per usare il linguaggio della commedia dell’arte, si contrappone quello non diremo buffo, ché il termine sarebbe esagerato, ma da commedia certamente sì. Lo compongono l’Eudamia del contralto Valeria Girardello, che ci dona la gustosa caratterizzazione di una fatalona un po’ volgarotta e fisicamente esuberante; il Filindo del mezzosoprano Rosa Bove, assai vivace sul piano scenico e molto espressivo su quello vocale nonostante qualche stridore in zona acuta durante la prima aria; l’Admeto del baritono Michele Patti, apprezzabile anche perché impegnato nell’interpretazione di un ruolo drammaticamente ambiguo e quindi non facile, sempre in bilico fra la caricatura di un re da burla e la serietà minacciosa del detentore del potere. Da elogiare, come sempre, la prova del Coro del Teatro condotto da Claudio Marino Moretti.

Di apprezzabile fattura lo spettacolo concepito dal regista Fabio Ceresa – applaudito responsabile dell’ “Orlando furioso” dello scorso anno – con la collaborazione di Massimo Checchetto (scene), Giuseppe Palella (costumi), Fabio Barettin (luci), Mattia Agatiello (coreografie).
L’idea di fondo, impegnativa perché da giocarsi sul filo del rasoio di una continua alternanza fra generi e atmosfere diverse, è quella di non prendere sul serio il dramma, cercandone la componente comica e anche inventandola laddove il libretto non sembrerebbe autorizzarla, ma senza trascurare, soprattutto nella parte finale dell’opera ove i due protagonisti morirebbero se non intervenisse Apollo, gli spunti patetici e anche tragici che la vicenda propone. L’operazione è condotta con fantasia sbrigliata, ma insieme con gusto, con misura e senza particolari forzature, per cui il risultato complessivo è apprezzabile e godibile. Per conferire un tocco di realismo e un po’ di movimento cronologico ad una drammaturgia del tutto statica ed astratta, il regista ha pensato di rappresentare lo scorrere delle stagioni, anzi di alludervi con delicatezza: ecco dunque la neve, all’inizio dell’opera, subito sostituita da festoni di fiori all’echeggiare del tema della “Primavera”; seguono, rappresentati da cascate ornamentali di foglie e fiori che scendono dalla scalinata, l’estate e l’autunno, pittorescamente colorato, fino al ritorno della neve, che cade sulle sofferenze della coppia perseguitata, e all’apoteosi conclusiva, ove, in uno sfolgorio d’oro, avviene l’epifania di Apollo. Molto importante, ai fini dell’esito complessivo dello spettacolo, l’apporto dei ballerini della Fattoria Vittadini, che arricchiscono e completano ogni scena con una presenza appropriata, incisiva, originale, ma mai ingombrante o fuori tono.
Il giusto merito va riconosciuto anche a scene e costumi, che contribuiscono a proiettare la vicenda in un contesto atemporale di favola, ove, come in tutte le favole, il male esiste e incombe minaccioso, ma, alla fine, non va preso troppo sul serio e si sgonfia, grazie all’intervento di un’autorità
che mette le cose a posto. La scena consiste di una doppia scalinata bianca di ispirazione neoclassica, che si apre al centro per consentire il traffico dei personaggi e si congiunge in alto in un praticabile. Il candore della scalinata e di una parte dei costumi, esaltato dal fondale nero, è ravvivato da un gioco cromatico quanto mai vario e vivace, a tratti sfavillante, cui partecipano altri costumi e i vari elementi ornamentali. E, a proposito dei costumi, simpaticamente ascrivibili ad un mondo mitico rivisto come una coloratissima favola, va doverosamente ricordato che l’artefice, Giuseppe Palella, ha ottenuto il Premio Abbiati 2018, il più prestigioso riconoscimento esistente in Italia in campo operistico, come costumista del già citato “Orlando furioso” del Malibran. Fondamentale anche l’apporto delle luci, che intervengono con puntualità ed efficacia a sottolineare i vari momenti psicologici ed emotivi della vicenda.
La pomeridiana di domenica 5 maggio, cui si riferiscono queste note, ha riscosso, come già accennato, un successo calorosissimo, segnato dalla partecipazione viva e convinta del pubblico, che ha applaudito a scena aperta ogni aria dell’opera.


Adolfo Andrighetti

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