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Fenice: una Turandot restituita alla dimensione della fiaba

24/05/2019
Fenice: una Turandot restituita alla dimensione della fiaba“Turandot” di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni tratto dalla omonima fiaba di Carlo Gozzi, è una delle più illustri incompiute della storia dell’opera. L’elenco sarebbe lungo e non è il caso di ripercorrerlo, anche per non incorrere in ingiuste omissioni. Ma di “Turandot” si sa che un tumore alla gola provocò la morte di Puccini a Bruxelles quando il terzo atto era stato musicato ed orchestrato completamente fino al lamento funebre sul cadavere di Liù, mentre della parte conclusiva, con la scoperta dell’amore da parte della principessa e la sua unione con Calaf, rimanevano solo pochi appunti. Puccini spirò il 29 novembre del 1924 lasciando la “Turandot” incompiuta e così venne rappresentata la prima volta il 25 aprile 1926 alla Scala, con la direzione di Toscanini.
Ma sarebbe sbagliato attribuire alla malattia ed alla morte prematura dell’autore la causa unica del mancato completamento dell’opera. In realtà, delle difficoltà a concludere “Turandot” si erano già manifestate quando Puccini non doveva ancora lamentarsi di quei forti dolori alla gola e di quella tosse violenta che lo portarono a Bruxelles; difficoltà dovute anche alle lungaggini dei librettisti nel presentargli i versi, ma, pare ormai assodato, soprattutto alle incertezze del compositore di fronte al nodo della “principessa di gelo”, ferocemente casta in odio di tutta la razza maschile, che si sgela e si scopre ardentemente innamorata di Calaf. Questa radicale conversione del personaggio, che era stato costruito fino a poche battute prima come l’inavvicinabile cima innevata di una montagna altissima e di colpo si rivelava semplicemente una donna, rappresentava insomma un ostacolo che Puccini non riusciva ad affrontare in modo adeguato.
Viene da pensare che se il compositore avesse avuto più dimestichezza con la religiosità cristiana, avrebbe saputo trovare la risposta ai propri dubbi nel sacrificio di Liù, la quale testimonia alla principessa che cosa sia l’amore donando la vita per la salvezza di Calaf. E Turandot è colpita, anzi travolta, da quella rivelazione improvvisa ed assoluta, quell’epifania umana e divina insieme che le fa vedere di colpo il significato della vita. Puccini aveva capito che “questa morte” cioè quella di Liù “può avere una forza per lo sgelamento della principessa”, come scrisse ad Adami, ma non seppe evidentemente portare questa intuizione fino alle ultime conseguenze e metterle le ali perché prendesse il volo anche sul piano drammatico e musicale.

Comunque sia, “Turandot” non rimase incompiuta dopo la scomparsa del suo autore. Casa Ricordi, titolare dei diritti dell’opera, volle che fosse completata, anche per ragioni di politica editoriale. L’incarico, come è noto, fu affidato a Franco Alfano, che, dopo una prima versione giudicata pletorica da Arturo Toscanini, ne portò a termine un’altra, più stringata, frutto della collaborazione fra i due musicisti. È quest’ultimo il finale scelto tradizionalmente per la rappresentazione dell’opera; criticato, guardato con sospetto, ma ancora non sostituito nella prassi teatrale dalla versione di Luciano Berio.
Esiste un’altra possibilità, adottata da Toscanini alla prima dell’opera ed alla Fenice nella precedente messa in scena (2007, la cinese Zhang Jiemin sul podio, Denis Krief il regista): interrompere la rappresentazione con la morte di Liù. Ma questa volta la Fenice (direttore Daniele Callegari, regista Cecilia Ligorio) ha scelto la soluzione consueta e probabilmente più logica, cioè dare un finale all’opera e nella versione Alfano-Toscanini. In effetti, tutto quanto succede prima della morte di Liù acquista un senso dall’apoteosi conclusiva; in caso contrario resta irresoluto, una tensione continua che ricade su se stessa e non ha compimento.
Il fatto è che l’esecuzione del lamento funebre sulla morte di Liù (bravo maestro Callegari!) è così mesta, così straziante, così pacatamente rassegnata, da far risaltare ancora di più una certa enfasi trionfalistica del finale Alfano-Toscanini e da far desiderare che l’opera si concluda con quel tenue sospiro funebre di commiato cantato sul cadavere della schiava.
In effetti, Daniele Callegari affronta con padronanza e competenza la complessa partitura, che viene risolta senza nulla omettere o porre in secondo piano. Ne sono evidenziati, quindi, non solo il grandioso respiro sinfonico, ma anche i momenti più lirici e raccolti (come appunto il congedo funebre a Liù), le numerose dissonanze restituite in tutta la loro pregnanza drammatica, la straordinaria e magistrale ricchezza timbrica. Quest’ultima, in particolare, è la prova di quanto grande sia il genio pucciniano non solo nell’invenzione melodica e nell’effusione sentimentale, ma anche nella ricerca di un’orchestrazione originale e raffinata, che apre una strada italiana alla sperimentazione musicale dell’epoca, quella di Debussy e Strawinskij in primo luogo.
Insomma, il maestro Callegari dà vita, con la collaborazione di un’orchestra in grande forma, ad un’esecuzione di alto livello, padroneggiata e curata in ogni minima sfumatura, grazie anche all’evidente e prezioso lavoro di concertazione. Non per niente proprio a lui è stato riservato, alla serale di martedì 21 maggio, l’applauso più caloroso. A lui e a quella artista di qualità garantita che è Carmela Remigio. La sua Liù, vestita con l’abito semplice e dimesso che si ritiene adatto alla piccola schiava, accusa qualche asprezza in zona acuta, soprattutto nel primo atto, ma tutto il resto è di classe: linea di canto, intenzioni interpretative, aplomb vocale. È la prova vivente che il canto è un’espressione dell’animo umano che non si esaurisce nella voce e nelle sue caratteristiche fisiologiche, ma se ne serve per trascenderle verso un esito artistico più elevato, vorrei dire più spirituale.

La figura antagonista e insieme complementare di Carmela Remigio-Liù, cioè il soprano ucraino Oksana Dyka, è una Turandot sicuramente credibile. Lo è per una presenza scenica altera e compassata fino alla rigidezza, ma anche prestigiosa, preziosa, valorizzata dai bellissimi costumi tradizionali che indossa. Lo è anche per una voce che suona tagliente, talvolta aspra, che ha nella zona acuta il suo punto di forza. L’aria di ingresso è risolta bene, dignitosamente la scena degli enigmi, ma è chiaro che uno strumento così rigido, così poco duttile, è di difficile gestione in altri momenti, ove anche l’emissione risulta forzata e l’intonazione faticosa.
Il Calaf di Walter Fraccaro, vestito con un costume di foggia tradizionale, non delude le aspettative, nel senso che si presenta vocalmente prestante e di assoluta affidabilità come sempre. Dà il meglio quando la voce può sfogare in acuto, altrimenti l’emissione risulta un po’ di fibra e carente di morbidezza. Il suo “Nessun dorma”, appuntamento sempre molto atteso dal pubblico, avrebbe richiesto più lirismo ed un canto meno muscolare, ma è anche vero che il terzo “Vincerò” squilla così robusto e perentorio da sollevare, per così dire, il pubblico dalle poltrone. L’artista, invece, è risultato meno soddisfacente nel finale di Alfano, ove si è lasciato andare ad un canto un po’ vociferante e poco controllato nell’emissione.
I tre ministri (Alessio Arduini, Valentino Buzza, Paolo Antognetti), il cui costume ricorda quello tipico della caccia alla volpe, sono bravi ed intonati sia come ensemble sia presi singolarmente. Inoltre si fanno apprezzare per un gioco scenico vivace ed impegnato, nella continua alternanza fra il loro ruolo ufficiale, che li spinge al cinismo ed alla violenza, ed una umanità che vuole resistere ed affiorare, soprattutto nel secondo atto.
Tutti i comprimari sono ottimi, a cominciare dal Timur dolente, nobile e vocalmente corposo dell’ottimo basso coreano Simon Lim. Eccellente la caratterizzazione dell’imperatore Altoum realizzata da Marcello Nardis, aiutato anche da un costume bellissimo e da un trucco efficace. Bene come sempre Armando Gabba, vestito come un manager di oggi con tanto di valigetta ventiquattrore, che dà dignità e spessore vocale al ruolo del Mandarino.
Per concludere, ai consueti e sempre meritati elogi per il Coro del teatro diretto da Claudio Marino Moretti, sono da aggiungere quelli per il Kolbe Children’s Choir istruito da Alessandro Toffolo.

La messa in scena, un nuovo allestimento della Fenice (regia di Cecilia Lagorio, scene di Alessia Colosso, costumi di Simone Valsecchi, disegno luci di Fabio Barettin), ha dalla sua la chiarezza delle intenzioni e dei mezzi usati per realizzarle, secondo un orientamento rassicurante per il pubblico ma anche assolutamente onesto nei suoi confronti. L’azione si svolge all’interno – e qualche volta subito fuori, ma senza mai perderne il contatto – di una grande cornice di lacca blu, che inquadra tutto il palcoscenico, ad isolare e distinguere il tempo della favola da quello reale. Ed è proprio la dimensione favolistica, che è diversa ma non distante dalla vita concreta perché ne indica gli archetipi, a rappresentare la cifra identificativa dell’allestimento.
Il palcoscenico è praticamente vuoto e immerso nella semioscurità. Al suo interno si agita una folla aggressiva e sottomessa nello stesso tempo, forse aggressiva proprio perché sottomessa, vestita di abiti anonimi e scuri: si capisce che sta subendo il potere capriccioso e sadico di Turandot e vive in una dimensione ove gioia e speranza sono bandite. Solo quando il gelido cuore della principessa si scioglierà aprendosi all’amore, allora la luce riprenderà progressivamente possesso del palcoscenico in un crescendo di bella efficacia teatrale: un grande sole dorato calerà dall’alto a sostituire la luna-ghigliottina che campeggiava in cielo in precedenza e gli abiti scuri della folla diventeranno candidi, a simboleggiare il ritorno della vita e di sentimenti umani al posto della violenza e la sopraffazione.
Tuttavia, la presenza costante di bambini in scena, non solo attorno ai tre ministri - a rappresentare un’innocenza perduta nel servizio del potere e sempre vagheggiata con nostalgia - ma anche attorno all’imperatore - contraltare buono della sanguinaria principessa - ci vuole forse indicare che c’è sempre speranza, che la vita, nonostante ogni apparenza contraria, è sempre pronta a rifiorire non appena le si offra una possibilità. In questo senso, la luce che ritorna nel finale rappresenterebbe la manifestazione compiuta e la vittoria di una speranza prima occultata e compressa, ma sempre presente, mai definitivamente scomparsa. E, chissà, quei bambini che non mostrano di temere Turandot e le stanno accanto, forse le vogliono ricordare quella maternità che l’attende quando si aprirà all’amore
In questo felice allestimento non mancano neppure alcune soluzioni teatrali particolarmente riuscite, come, oltre al finale già descritto con l’irruzione della luce, la poetica apparizione delle ancelle di Turandot avvolte in veli candidi nel primo atto; o la scena di apertura del terzo atto, tutta avvolta nelle tenebre con tanti punti luminosi a simboleggiare quelle stelle a cui i protagonisti guardano con sentimenti diversi in attesa del loro “tramonto”, mentre misteriose e ambigue figure avvolte in sinistri costumi si aggirano verso il proscenio alla ricerca di quel nome il cui possesso dovrebbe confermare la principessa nel suo gelido dominio.
Alla fine successo discreto ma non particolarmente caloroso, con le eccezioni già segnalate.


Adolfo Andrighetti

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