Venezia ‘76: Pedro Almodovar, Leone d’oro alla carriera
Sarcastico ai limiti del cinismo e nello stesso tempo leggero e melodrammatico, tragico, fosco, buffo e dissacrante. Viene da chiedersi che cosa potrebbe rappresentare Almodovar per il Cinema se il suo sguardo indiscreto così sagace, attento ed anticonformista, non si fermasse troppo spesso alla superficie delle cose: potremmo pensarlo un nuovo Bunuel. Tuttavia questo limite è anche innegabilmente una sua personalissima caratteristica. Nelle pieghe di un quotidiano greve e dominato dalla disillusione e dal menefreghismo, da una vita sessuale ambigua e tuttavia senza sorprese, il nostro regista ci rivela un mondo fantasioso ed irriverente, sottilmente pervaso di cinismo.
Nelle sue sceneggiature il kitsch, la sovrabbondanza di elementi narrativi eterogenei, l’omosessualità ostentata si uniscono al brio ed all’arguzia che le avvicinano a quelle di Woody Allen con in più le ardite ritmiche slang di Tarantino. La superficialità di Almodovar è strutturale, gratta l’epidermide delle cose per trarne quasi l’essenza. Ma ciò che ci incanta nei suoi film più maturi è la fluidità drammaturgica, dove più che ragionare sul concetto di messa in scena e sul significato del ‘riprendere’ come strumento di osservazione ed interpretazione, si lascia andare ad un gusto languido per il ricordo e la citazione. A dispetto, o forse proprio a causa, della sua ferrea educazione religiosa, Almodovar quando iniziò a scrivere “Tra le Tenebre”, il suo primo film, si rese conto che Dio era sparito dalla sua mente e quindi decise che se Dio non era presente “per lo meno sarebbe stato assente. In fondo è un altro modo di essere”.
Il soggetto del film era la pietà per l’essere umano nella sua abiezione, un sentimento abbastanza cristiano, anche se le sue espressioni oscillano fra l’idea di Don Bosco che protegge i vagabondi offrendo loro una casa e lavoro, fino a Jean Genet che li aiuta ad uccidere e rubare. Il mondo di Almodovar è sostanzialmente ‘finto’, inventato, anche quando sembra palpitare di passioni primarie come in “Parla con Lei” o “Tutto su mia Madre”. Nasce dalla ricerca e quindi dalla costruzione della naturalezza del sentimento, della passione. Il desiderio, così centrale nella sua poetica, (al punto che la sua casa di produzione col fratello Augustin si chiama EL DESEO) ha una natura intimamente mimetica per cui “si desidera non solo il qualcosa, ma si desidera soprattutto il come”.
L’educazione cinefila di Almodovar consiste in un continuo rifare, ripetere, riprendere e variare con frequente uso della citazione. I giovanissimi collegiali de “La Mala Educacion”, vessati da un’opprimente situazione, guardando al cinema “L’Angelo del Male” e “Teresa Raquin” solennemente sottolineano “stanno parlando di noi”, pensando alle conseguenze del crescere in ambienti poveri e brutali, schiantati da passioni ingestibili. Almodovar stesso ci dice: «Come Alida Valli in “Senso” o James Mason in “Lolita” m’interessano quelli che amano, piuttosto che l’oggetto della loro passione. Perché chi ama senza speranza è capace di qualsiasi cosa, da quella più sublime a quella più disprezzabile».
I suoi film, per sua dichiarazione, sono tutti personali. Non esplicitamente, ma per quello che c’è dietro i personaggi, i luoghi, gli ambienti: la Spagna franchista e quella della movida. Almodovar è cresciuto nell’oscurità dei conventi religiosi come nella Madrid degli anni 80. Non ha subito violenze, ma c’è cresciuto in mezzo, perché i dormitori non hanno segreti. Egli stesso dichiara di non sapere come le ‘sue’ donne, che a frotte popolano i suoi film, riescano a sopravvivere. Ma lo fanno, come ce la facevano le donne della Spagna poverissima che il regista ben conosce, un paese retto dalla loro forza nonostante il machismo imperante.
I suoi film sono autobiografie o autofinzioni, come si esplicita nel suo ultimo lavoro “Dolor y Gloria”, ovvero le età del regista e della sua innocenza, bimbo e ragazzo inquieto, uomo e artista di fama, qui in crisi di ispirazione dopo molti successi, che si lascia andare nelle acque di una piscina prima di immergersi, quasi come in una seduta psicanalistica, nella propria esistenza, ed in quella del suo cinema. Passato e presente, incontri ed errori, figure reali ed apparizioni oniriche: realtà e finzione si mischiano e poco importa sapere cosa viene dalla ‘vera’ vita del regista, e cosa invece appartenga a quella del personaggio. Tutto è racconto, esiste nelle immagini del cinema di Almodovar che di questa vita si è nutrito, dichiarandone i passaggi e le esitazioni, gli slanci e la memoria. Nel suo ultimo film il regista si rimette in scena con nuova sincerità, sapendo di non poter essere più lo stesso, sapendo che ogni tempo, personale e storico, richiede un passo diverso.
Cosa accadrà in futuro? Forse Almodovar, oggi settantenne ed acciaccato, non girerà più … o forse ancora e ancora, per non rinunciare a ciò che più lo motiva ed affascina: la risposta del pubblico, il silenzio in sala alla fine della proiezione. Ci dice Almodovar: «I silenzi possono essere di due tipi, quelli contrariati e quelli di quando il cuore è così vicino alla storia passata sullo schermo, che le parole non possono trovare spazio».
Mariateresa Crisigiovanni