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Venezia 76: furore e speranza del “Cittadino Rosi”

06/09/2019
Venezia 76: furore e speranza del “Cittadino Rosi”"Sono diffidente degli omaggi, di qualsiasi tipo essi siano...”: parole di Francesco Rosi. E Venezia 76, a quattro anni dalla sua scomparsa, presenta il documentario fuori concorso “Citizen Rosi” firmato dalla figlia Carolina in co-regia con Didi Gnocchi, dalle stesse prodotto e finanziato e distribuito dall’Istituto Luce. Un atto di amore di Carolina, iniziato nel 2013, quando Rosi era ancora in vita e si chiedeva, sconfortato per il degenerare del paese, a cosa fossero serviti il coraggio e la resistenza del passato.
Nel 1958 Francesco Rosi presenta alla Mostra del Cinema il primo dei suoi 18 lungometraggi “La Sfida” (premio speciale della giuria), dove narra l’evoluzione della criminalità napoletana. Qui il giovane Rosi crea un gioco di luci ed ombre con un perfetto movimento delle figure all’interno del quadro narrativo. È il suo modo per pagare un debito a Visconti del quale era stato assistente nel memorabile “La terra trema” del 1948. Nel 1963, con “Le mani sulla città” si merita il Leone d’Oro, seppure il pubblico lo fischiasse violentemente. Nel 2012, sempre a Venezia gli viene conferito il Leone d’oro alla carriera. Ed ora a Venezia, nel lavoro di sua figlia, possiamo cogliere fortemente come gli entusiasmi del passato abbiano poi ceduto il posto ad una visione più amara anche se fino all’ultimo il suo cinema, nel tentativo di comprendere il mondo, non abbia mai rinunciato al tentativo di migliorarlo.
Carolina ha registrato molte conversazioni col padre, ed il corpo del documentario trova inseriti i filmati di Rosi che si stabilisce a Montelepre per trattare con la povera gente senza speranza, e per vedere il cortile di Castelvetrano dove fu fatto ritrovare il corpo di Salvatore Giuliano cui venne ordinata la strage di Portella della Ginestra. Il film “Salvatore Giuliano” del 1962, riproduce un passaggio della strategia degli uomini del potere che non scendono mai allo scoperto. Questo è uno degli aspetti più caratteristici del cinema di Rosi: l’analisi del ‘gioco dei potenti’, la loro tattica difensiva, la loro capacità sotterranea di persuadere ed imporsi ai sudditi. (Curioso fu il divieto, dell’allora direttore della Mostra del cinema Luigi Chiarini, a proiettarlo definendolo ‘un documentario’. E Rosi ci dice “A chi sosteneva questo gli avrei dato un cazzotto in testa...”).


Rosi ha percorso i sentieri narrativi più vari, cambiando tecniche, sperimentando sempre nuove strutture. Non possiamo annoverarlo tra quei registi, seppur di enorme forza, che fanno sempre lo stesso film come Fellini, Bertolucci o Visconti. Quello di Rosi è prima di tutto un cinema di testimonianza: vuole cogliere la realtà attraverso gli occhi di un personaggio-testimone. Volontè in “Cronaca di una morte annunciata”, la figlia Carolina, nel ruolo della giornalista in “Dimenticare Palermo”, Ventura in “Cadaveri eccellenti”, sono personaggi che cercano, indagano, ricordano. Nel suo omaggio al padre Carolina Rosi riporta alcune vecchie interviste del regista, molti struggenti ricordi familiari con Rosi che parla alla piccola figlia del suo lavoro, testimonianze di giornalisti come Furio Colombo, di magistrati come Roberto Calia, di scrittori come Saviano con cui Rosi riflette sulla legalizzazione delle droghe.
Nel docu emergono salienti episodi di ingiustizia come quello di Craxi che proibì al quotidiano “Avanti” di recensire “Dimenticare Palermo” perché il film sosteneva la necessità di legalizzare le droghe per sconfiggere l’immenso potere della mafia. In Rosi, ed il docu lo chiarisce, politica e cinema finiscono per influenzarsi a vicenda; se il cinema è la creazione di mondi paralleli al nostro, la politica diventa la presa in esame di tutte le possibili varianti. Il regista impiegava anni a documentarsi. Per “Lucky Luciano” aveva incontrato a New York il capo della Narcotic Bureau e lo aveva convinto ad interpretare se stesso. In “Mani sulla città” compare il consigliere comunale del PCI napoletano che si scaglia contro il palazzinaro Rod Steiger. Il film, in uno sfavillante bianco e nero, parla dell’abusivismo edilizio legato alla corruzione politica. Argomento che come sappiamo continua a seminare stragi.
La politica nel suo cinema è presente in maniera diretta e forte, ma quasi sempre riesce a farsi narrazione. I drammi dell’Italia, le tragedie non evitate, le uccisioni della mafia, diventano pretesti drammaturgici. Il suo obiettivo è studiare, conoscere, far conoscere i segreti ingranaggi del potere, e tuttavia in nessuno dei suoi film propone soluzioni, né crede in una rivoluzione repentina. Lo ascoltiamo mentre dice “A me piace vivere, mi piace la materia, godere anche delle piccole cose come il lavoro degli artigiani. Questa è la parte di me in contrasto col pessimismo razionale che mi pervade”.

Mariateresa Crisigiovanni

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