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Inaugurazione alla Fenice presentando la cupezza del potere

29/11/2019
Inaugurazione alla Fenice presentando la cupezza del potereAll’inizio fu “Don Carlos”, grand-opéra in lingua francese concepito secondo le esigenze di grandiosità e spettacolarità dell’Opéra, ove fu rappresentato l’11.3.1867; ben cinque atti, su libretto di Francois-Joseph Méry e Camille Du Locle. Seguì la versione italiana, “Don Carlo”, curata per i versi da Achille de Lauzières e Angelo Zanardini, che, rispetto alla precedente, manca del primo atto. Fu data alla Scala il 10.1.1884.
La storia ci spiega che il re di Spagna Filippo II sposò sedicenne Maria Manuela di Portogallo, morta presumibilmente di parto dando alla luce Don Carlos. Questi si rivelò presto un indegno erede al trono: fisicamente malformato, malaticcio, affetto da un disagio psichico che lo portava spesso a comportamenti bizzarri ed aggressivi, ebbe sempre un rapporto difficile con il padre, che finì per farlo rinchiudere in una torre, ove il ragazzo si lasciò morire pochi mesi dopo. Di una storia d’amore di Carlos con Elisabetta di Valois, figlia dei regnanti di Francia, non è quindi proprio il caso di parlare, nonostante i due fossero coetanei anche se ancora bambini o poco più. Elisabetta, invece, appena quattordicenne, andò sposa a Filippo II, che allora aveva trentadue anni, per coronare il disegno delle due dinastie, quella spagnola e quella francese, di rafforzare il legame reciproco.
Il dramma di Schiller, geniale e potente, capolavoro assoluto della letteratura mondiale, fornisce a Verdi l’intelaiatura culturale ed umana su cui lavorare, a cominciare dal tema della libertà, particolarmente sentito dallo scrittore. La libertà è l’oggetto dello scontro politico e ideologico fra chi (Posa, Don Carlos, anche Elisabetta) la riconosce come un bene irrinunciabile, e chi, invece (Il Grande Inquisitore, Filippo II) la considera un pericolo gravissimo per gli assetti istituzionali e sociali, che si reggono su di una monarchia assoluta sostenuta dalla religione. Ma in Schiller la libertà è anche quella che riguarda la dimensione privata, schiacciata da un potere che non rispetta la dignità delle persone e conosce solo la logica della propria autoconservazione.
Su questo scenario si staglia, complessa e sofferta ma anche dominatrice, la figura di Filippo II. Egli è artefice fragile e dubbioso di quella strategia di violenza e terrore che pure ritiene necessaria per la salvezza della corona; ma è anche un essere umano che avverte il bisogno degli affetti, eppure si sente costretto dal ruolo a tenerli distanti e a guardarli con diffidenza, si tratti del figlio o della sposa. Accanto a Filippo, Schiller ci presenta un Don Carlos più interessato ad Elisabetta che alla politica, sovraeccitato, sopra le righe, incapace di calma e di realismo; e un Rodrigo marchese di Posa dagli ideali altissimi, in nome dei quali è disposto a tutto: al sotterfugio, al tradimento, alla strumentalizzazione di chi gli sta intorno e ha fiducia in lui.
Fra storia e Schiller, Verdi compone un’opera caratterizzata dall’intreccio stretto, inestricabile, di politica ed affetti, che si condizionano reciprocamente in un gioco di continui rimandi, dando vita ad un affresco di enorme fascino. Vi prevale una tinta scura, cupa, che i tocchi di nobiltà araldica impreziosiscono ma non ravvivano, creando quell’effetto “nero e oro” di cui si ha un lampante esempio visivo nella viennese cripta dei Cappuccini. L’avello nell’Escurial, di cui canta Filippo II nel suo monologo, appare così come la sintesi simbolica di un potere lugubre e mortifero, nelle cui spire ogni sentimento umano, ogni anelito di vita, vengono soffocati. In questo scenario, la semplificazione drammaturgica richiesta al genere operistico ci presenta un Posa sempre e soltanto nobile e idealista, anche se forse responsabile di un’azione di plagio nei confronti di Don Carlos. Anche quest’ultimo è un eroe positivo, ma anche velleitario e vagamente nevrotico secondo il modello di Schiller e in remota analogia con l’originale storico. Filippo II si conferma il personaggio più imponente e insieme sfaccettato, “sgraziato genitor, sposo più triste ancor”, la prima vittima di un potere di cui egli è il massimo rappresentante ma al quale, come ad un idolo pagano, è costretto a sacrificare i propri affetti e quindi se stesso.
Questa oscura ala di morte, che getta un’ombra pesante e soffocante su tutto ciò che tocca, rappresenta la cifra distintiva dell’allestimento prodotto dall’Opéra national du Rhin di Strasburgo e dall’Aalto-Theater di Essen, cui la Fenice ha affidato l’inaugurazione della Stagione lirica 2019-2020; un allestimento dovuto alla firma prestigiosa di Robert Carsen per la regia, con la collaborazione di Radu Boruzescu (scene), Petra Reinhardt (costumi), Peter Van Praet (luci, insieme con Carsen), Marco Berriel (assistente alla regia e movimenti coreografici).
Lo spettacolo evita accuratamente la distrazione dell’ornamentale e del superfluo per mirare dritto all’essenziale, cioè a ricostruire non un ambiente storicamente identificabile ma una dimensione spirituale e psicologica senza tempo. “E’ come se ci trovassimo dentro la testa di don Carlo”, spiega il regista. Quello che ci vuol presentare Carsen è un mondo immerso nelle tenebre della violenza e dell’oppressione, anzi schiacciato da esse. Non c’è luce, non c’è sollievo, non c’è speranza in questo mondo, raffigurato da un palcoscenico completamente spoglio dominato dal nero e dal grigio, gli stessi colori dei costumi di anonima foggia contemporanea. E dappertutto preti, preti e ancora preti – e suore durante la canzone del velo...- a confermare che il potere - quello che brucia i libri nella scena dell’autodafé nel tentativo di annullare, anzi esorcizzare, il pensiero umano - è qui il potere ecclesiastico: ottuso come un automa micidiale programmato per opprimere; cieco, sordo e muto, come un idolo insensibile e crudele. Anche la canzone del velo, l’unico momento leggero e di relativa serenità presente nell’opera, non sfugge a questa implacabile tetraggine e i fiori bianchi sparsi in palcoscenico non fanno che accentuare la dominante atmosfera funeraria.
Ne esce uno spettacolo pesante e soffocante, ma duro e coerente, opprimente e grandioso, che qualche volta va oltre e rischia di cadere nel ridicolo involontario, come quando Elisabetta canta “Tu che le vanità” circondata da bare, ma generalmente colpisce nel segno e lascia addosso allo spettatore un senso di pesantezza e di malinconia che solo gli applausi finali riescono a disperdere.
Da segnalare anche la consueta abilità con cui Carsen fa muovere le masse e i solisti. A questi ultimi è affidata una gestualità esuberante, che li priva di ogni aplomb aristocratico, forse a rappresentare che qui non si tratta più di blasoni più o meno prestigiosi, ma semplicemente di esseri umani alle prese con il potere, perché lo subiscono o perché lo esercitano, oppure perché incarnano entrambi i ruoli contemporaneamente, come Filippo II.
Molto si potrebbe discutere sul cambiamento della drammaturgia voluto da Carsen, che fa di Rodrigo un traditore che sfrutta nell’interesse del regime la fiducia accordatagli da Carlo e dal re; così consegna nelle mani del Grande Inquisitore le carte compromettenti che gli affida Carlo e la sua nobile morte è solo un’abietta finzione. E’ una lettura possibile, nel teatro d’opera si sono visti deragliamenti ben più volgari rispetto ai binari tracciati dal compositore e dal librettista; ma il problema è di coerenza con la musica e con quanto essa esprime. Se Rodrigo è un traditore, infatti, lo splendido tema dell’amicizia viene svilito, svuotato, ridotto all’insignificanza; per non parlare della morte di Rodrigo, con la musica che avvolge di un pathos intenso e nobile ciò che è solo una squallida farsa.
A proposito di musica, l’inaugurazione della stagione della Fenice è affidata alla preziosa bacchetta di Myung-Whun Chung. Questi, con il suo gesto chiarissimo, quasi didattico, con la sua capacità di coinvolgere un’orchestra ben disposta alla collaborazione, ci offre un gran bel “Don Carlo”, curatissimo in ogni sfumatura ed in ogni inciso orchestrale ed allo stesso tempo turgido di sonorità e di colori smaglianti quando l’orchestra si esprime con pienezza sinfonica. Gli esempi che si potrebbero portare a conferma di ciò sono veramente molti. Citarne alcuni significa far torto agli altri. Ma ricordiamo almeno il sinistro, livido accompagnamento alla scena Filippo II – Grande inquisitore e l’introduzione, così ricca di un’emotività pudica e straziante insieme, alla scena della morte di Rodrigo. Insomma, è un “Don Carlo”, quello di Myung-Whun Chung, che cattura ed emoziona, fa riflettere e fa commuovere, ripete il miracolo di far rivivere tutta la bellezza e la verità artistica – quindi tutta la bellezza e la verità umana – di cui è depositario questo genere d’arte unico ed assurdo che è l’opera.
Il cast è globalmente di alto livello, ma, per una volta, prima dei solisti è il caso di citare il Coro del Teatro diretto da Claudio Marino Moretti, di particolare espressività ed omogeneità di suono sia nei rabbrividenti pianissimi sia nei grandiosi forti, quindi sempre pienamente all’altezza di un compito musicale e drammatico particolarmente impegnativo.
Il tenore Piero Pretti, don Carlo, è uno dei tre esordienti nel ruolo; gli altri due sono Alex Esposito come Filippo II e Julian Kim come Rodrigo. Il don Carlo di Pretti è credibile e comunicativo, forte di un’adeguata presenza scenica, di una apprezzabile partecipazione emotiva al personaggio, soprattutto di un timbro argentino ottimo per qualità, di un’emissione pulita, di una facilità allo squillo tipicamente tenorile. Debutto ampiamente riuscito, dunque.
Il Rodrigo del baritono sudcoreano Julian Kim è sano, robusto, esuberante, fin troppo per un ambiguo doppiogiochista come lo vuole Carsen. Ma il cantante non si discute, non accusa alcun problema vocale nel corso dell’esecuzione e mostra di possedere mezzi eccellenti. Forse dovrebbe imparare da Alex Esposito, che in questo è maestro, a scavare all’interno del personaggio, a farne emergere anche i lati nascosti, curando di più gli accenti e le sfumature, considerato che la dizione è già ottima.
Il terzo debuttante nel ruolo è appunto Alex Esposito, artista singolare e a tutto tondo, che, nonostante una valida impostazione vocale ed un bel timbro rotondo e brunito da basso-baritono, non si accontenta mai di cantare soltanto ma si cala nel personaggio con un’intensità ed una ricchezza di intenzioni interpretative più uniche che rare sui palcoscenici odierni. Così il suo Filippo II mostra tutta la rabbia e il rancore di un potente che del potere è vittima prima ancora che gestore; un uomo privo di carisma regale e più simile ad un dittatore solo e problematico, insofferente alla gabbia in cui è chiuso ma dalla quale non è in grado di uscire. Indimenticabile il suo monologo “Ella giammai m’amò” per il pathos con cui l’artista lo anima e lo restituisce ad un sentire moderno o senza tempo, trovando non solo gli accenti ma anche le sonorità più appropriate ad onta dei limiti dello strumento. Perché, in effetti, Alex Esposito, nonostante la sicurezza nelle estreme note gravi dimostrata soprattutto nel fa che conclude la scena con il Grande Inquisitore, qualche volta risulta carente di ampiezza e di volume rispetto alle esigenze della parte. Che il passaggio dal repertorio consueto a Verdi sia stato troppo brusco o prematuro?
Il Grande Inquisitore voluto da Carsen è un demiurgo del male, che tiene saldamente in pugno tutte le fila di un disegno finalizzato alla conservazione del potere. Alla fine dell’opera, dopo aver disposto la soppressione degli ormai inutili Carlo e Filippo II, rimane solo ed imponente al proscenio. E’ interprete della parte Marco Spotti, la cui esecuzione si fa apprezzare, nonostante la fatica e il disagio accusati nei passaggi più acuti ed esposti, per una varietà di accenti e dinamiche tanto più significativa quanto più rara nelle esecuzioni correnti, ove si privilegia la ricerca di un canto terrificante e monolitico impostato tutto sul forte.
Il versante femminile presenta due artiste di alto livello come Maria Agresta nel ruolo di Elisabetta e Veronica Simeoni come Eboli. La prima piace senza riserve per una linea di canto impeccabile anche nei momenti di più acceso pathos, per il perfetto dominio delle dinamiche anche alle altezze più impervie (alcune note filate riempiono il cuore prima delle orecchie), per la bella partecipazione emotiva con la quale si cala nel personaggio.
Meno in parte della collega sembra Veronica Simeoni. L’artista, si sa, canta proprio bene e lo dimostra anche in questa circostanza, con la sua pregevole omogeneità di emissione e di suono, l’inappuntabile padronanza tecnica, il bel legato. Ma la parte sembra talvolta troppo onerosa per le caratteristiche dello strumento, che mostra limiti di espansione e robustezza, anche di aggressività, nei passi più drammatici.
Il cast è completato da uno stuolo di ottimi comprimari, mentre è apparso vocalmente insufficiente il Frate del giovane basso rumeno Leonard Bernad.
Alla serale di mercoledì 27 novembre alla quale si riferiscono queste note il pubblico ha riservato un successo convinto a tutti, con punte di particolare entusiasmo per i due sudcoreani: Julian Kim e soprattutto Myung-Whun Chung.


Adolfo Andrighetti

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