Al Malibran un burattino che e’ “un dono d’amore”
Sulla universale diffusione e celebrità de “Le avventure di Pinocchio”, il romanzo pubblicato da Carlo Lorenzini con lo pseudonimo di Collodi nel 1883, non è lecito sollevare dei dubbi. Ma che sia addirittura il romanzo italiano più letto al mondo è sorprendente e la dice lunga sulla forza immaginifica ed evocatrice di questa storia, che offre infinite suggestioni e si presta ad altrettante interpretazioni. Una storia dai toni picareschi, vissuta nei luoghi della vita come strade, piazze, fiere, osterie, ove si può incontrare chiunque e tutto può succedere. Pinocchio è affascinato dal fluire incessante e sempre cangiante dell’esistenza e vuole parteciparvi con un’energia vitale che lo porta a passare da un motivo di attrazione ad un altro senza un criterio di discernimento e di giudizio, inseguendo l’emozione del momento. In questo modo si allontana dalla sua vera identità – quella umana, che assumerà solo alla fine del viaggio – condannandosi alla insoddisfazione ed alla infelicità. Le avventure di Pinocchio, quindi, possono essere lette come un vero e proprio percorso iniziatico verso una più matura comprensione di se stessi, della vita, della realtà.
Su questo presupposto, quindi, sembra assolutamente pertinente l’intuizione di Pierangelo Valtinoni, che ha composto l’opera “Pinocchio” in scena al Malibran e del suo librettista Paolo Madron, i quali basano la loro interpretazione della fiaba sulla ricerca del padre da parte di Pinocchio, che lo perde all’inizio e lo ritrova soltanto alla fine. Un’affermazione del tutto condivisibile ma bisognosa di un’integrazione: la ricerca del padre, infatti, va intesa non solo come quella di Pinocchio nei confronti di Geppetto, una ricerca reale ma tutto sommato inconscia, inconsapevole, perché solo nell’epilogo il burattino si rende conto di aver inseguito sempre il genitore fra le sue mille disavventure. Ma anche e prima ancora va intesa come ricerca di Pinocchio da parte di Geppetto; una ricerca, questa sì, sempre impegnata e voluta fino in fondo, dettata da un cuore traboccante d’amore. Per cui le avventure di Pinocchio si possono ben leggere come la metafora di una vicenda universale: quella dell’uomo che cerca il padre, cioè la propria identità, le proprie radici, in una parola il senso profondo della vita; e quella di un padre (o di un Padre?), che, come ci insegna la rivelazione cristiana e come il nostro cuore in fondo spera e desidera, cerca l’uomo senza mai stancarsi.
La storia di “Pinocchio”, fiaba musicale in due atti, nasce nel 2001, quando l’allora direttore dell’Orchestra del Teatro Olimpico di Vicenza, Giancarlo Andretta, commissiona a Pierangelo Valtinoni un’opera per ragazzi, proponendogli come fonte il romanzo di Collodi. L’operina, della durata di soli quarantacinque minuti e dalle finalità prevalentemente didattiche, si trasforma, dopo qualche anno, in un’opera vera e propria, destinata alla ordinaria circolazione teatrale. Era successo, infatti, che la sede berlinese della casa editrice londinese Boosey&Hawkes, specializzata in musica classica, aveva potuto vedere una videocassetta dell’operina apprezzandola moltissimo. Così il compositore fu sollecitato a rivedere il proprio lavoro, che acquisì una struttura più compiuta e professionale attraverso l’ampliamento della durata a quasi un’ora e mezza e l’aggiunta di nuove scene e di nuovi personaggi. Infine si giunse al debutto di “Pinocchio” il 5 novembre 2006 alla Komische Oper di Berlino, nella versione che vediamo al Malibran: l’inizio di un percorso felicissimo, dal momento che questa è l’opera italiana contemporanea più rappresentata al mondo.
Quando si ascolta “Pinocchio” per la prima volta, si rimane piacevolmente colpiti dal festoso eclettismo della partitura, che amalgama senza soluzione di continuità e con godibile disinvoltura la musica che definiremmo seria o classica con le più facili (almeno in apparenza) suggestioni di quella leggera, le risonanze del dramma con lo spirito della commedia divertita, il canto con momenti di recitato, gli stilemi caratteristici dell’opera per ragazzi con altri propri del repertorio operistico ordinario, la struttura tonale con qualche soluzione diciamo così più trasgressiva. Se a tutto questo aggiungiamo lo sbrigliato ricorso a ritmi di danza, ne risulta un materiale sonoro fresco e frizzante, capace di catturare l’attenzione senza concedere un attimo di noia, sempre sorprendendo per la varietà della tavolozza alla quale il compositore ha attinto.
Ne è interprete apprezzabilissimo e sempre a proprio agio nel gestire l’eterogeneità della partitura con il suo rapidissimo e continuo alternarsi di motivi ispiratori diversi, il maestro trevigiano Enrico Calesso. Questi guida un cast perfettamente adeguato alle esigenze dei ruoli rispettivi.
Silvia Frigato, la voce forgiata dall’assidua frequentazione del repertorio barocco, è un delizioso Pinocchio ipercinetico, un monellaccio in continuo movimento, attratto da tutto e da tutto divertito. Il soprano si impadronisce della parte con convinzione e dedizione, e la sostiene validamente con il suo strumento delicato e di bel timbro, manovrato con la giusta perizia tecnica.
Il personaggio di Geppetto si avvale del mestiere consumato del baritono Omar Montanari - ben noto al pubblico della Fenice – che ne fa una caratterizzazione gustosa e però misurata, sempre credibile. Qualche difficoltà si è registrata nella zona grave di una tessitura forse più adatta ad un bass-baritone, ma molto belle sono le note in p che l’artista emette nel duetto con Pinocchio alla fine dell’opera, quando il padre saluta commosso il ritrovamento del figlio.
Il soprano Giovanna Donadini, Fata Turchina, sfoggia la sua ben nota vena di teatrante divertita ed esperta, sostenendola con l’altrettanto nota – almeno per il pubblico della Fenice – vocalità sicura, piena e risonante, sempre capace di riempire il teatro.
Molto bene il Mangiafuoco robusto ed espressivo del basso Rocco Cavalluzzi e ben calati nelle rispettive parti anche tutti gli altri: l’apprezzabile e incisivo contralto Chiara Brunello (Il Gatto), la spiritosa caratterizzazione della Volpe interpretata dal tenore Christian Collia, il Lucignolo del ventitreenne soprano Lara Lagni, la Lumaca – e non solo – del bravo mezzosoprano Rosa Bove.
Eccellente il rendimento del Coro di voci bianche Piccoli Cantori Veneziani diretto da Diana D’Alessio, al quale è affidato un ruolo almeno di coprotagonista nell’economia dell’opera. È chiamato, infatti, ad interpretare diversi personaggi (Conigli, Burattini, Pesci, Gendarmi, Bambini), fra i quali uno centrale come il Grillo parlante.
Lo spettacolo portato sulle scene del Malibran (regia Gianmaria Aliverta, scene Alessia Colosso, costumi Sara Marcucci, luci Elisabetta Campanelli, movimenti coreografici Silvia Giordano) è costruito con grazia, leggerezza ed una vena briosa e divertita che coinvolge il pubblico. La buona tradizione è accolta senza se e senza ma ed è giusto così, quando si mette in scena una favola che va rispettata nei suoi contenuti e nelle sue metafore, sia gli uni che le altre abbastanza ricche di un significato profondo ed universale per non aver bisogno di aggiornamenti o reinterpretazioni presuntuose o velleitarie.
Anche secondo Aliverta, dunque, Pinocchio è quello né potrebbe essere altrimenti e quindi tutti i punti focali dell’immortale racconto di Collodi rimangono integri: dalla faticosa frequentazione della scuola da parte di Pinocchio che vende il suo libro per acquistare i biglietti del teatro dei burattini, all’ampia scena di Mangiafuoco; dal furto delle monete consumato all’Osteria del Gambero Rosso dal Gatto e la Volpe mentre Pinocchio è addormentato, all’episodio della Lumaca che impiega tre settimane per aprirgli la porta della Casa della Fata; dalla medicina amarissima che deve ingurgitare per guarire mentre i Conigli-becchini sono già accorsi per le onoranze funebri, alla fuga nel Paese dei Balocchi, in cui Pinocchio, trasformato in un asino, finisce in un circo e poi viene gettato in mare, ove è inghiottito da un pescecane ma ha la possibilità di ricongiungersi con Geppetto.
Anche i personaggi sono chiaramente distinti fra buoni e gaglioffi, scelta indispensabile per non tradire lo spirito della storia e il suo messaggio. La loro caratterizzazione, aiutata dagli spiritosi costumi, non si allontana dalla tradizione: Pinocchio è vestito esattamente secondo l’iconografia consacrata, Geppetto si presenta come il classico artigiano povero, il Gatto e la Volpe hanno vistose code ed orecchie animalesche, Mangiafuoco ha la barba e la voce di basso anche se non corrisponde in pieno al cliché truce cui si è abituati, la Fata Turchina è bionda e vestita d’azzurro.
Il fondamentale rispetto della favola che contraddistingue questo spettacolo, non ostacola la realizzazione di una messinscena moderna, briosa e frizzante, condita di tanto in tanto da un pizzico di ironia. Sul palcoscenico, quindi, tutto nel complesso fila alla perfezione, con ritmo serrato, con la giusta vivacità, mentre la presenza dei numerosi mimi e ballerini è sempre equilibrata, non crea confusione né infastidisce.
Apprezzabile l’idea di dividere il palcoscenico in due piani sovrapposti: al primo si svolge la vicenda; a quello superiore sono collocati il coro di voci bianche e la Fata, presentati come una maestra con la sua scolaresca che leggono il romanzo di Collodi e immaginano con la fantasia ciò che avviene sul palcoscenico, mentre svolgono la loro preziosa funzione di commento o di partecipazione alla vicenda. Alcune soluzioni, invece, sono sembrate perfettibili, come quella adottata nella scena del pescecane, resa in modo troppo povero ed ingenuo portando a spasso due (perché due?) grossi pescioloni gonfi d’aria. Ma nel complesso lo spettacolo fila come un treno e quindi va promosso a pieni voti.
Il pubblico apprezza, si diverte ed applaude con grande calore alla diurna di sabato 21 dicembre cui si riferisce questa cronaca.
Adolfo Andrighetti
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