ALLA FENICE BARBABLU’ RISPLENDE DI BELLEZZA SONORA E VISIVA
“A Hand of Bridge” racconta in circa nove minuti ciò che il titolo promette: una mano del ben noto gioco di carte, durante la quale ognuno dei quattro giocatori si abbandona ad un monologo interiore in cui esprime i desideri e le insoddisfazioni che caratterizzano la propria vita. Il gioco, le cui varie fasi sono espresse nella forma del recitativo, diventa così l’occasione grazie alla quale ognuno dei quattro personaggi può rimanere per qualche secondo solo con se stesso e dare libero sfogo, attraverso una sorta di “arietta”, alla propria interiorità repressa.
Così Sally, frivola e superficiale, fantastica attorno ad un cappellino che desidera in modo particolare; suo marito Bill, avvocato, corre col pensiero all’amante, della quale è geloso; Geraldine conclude malinconicamente che la madre è l’unica persona che avrebbe potuto amarla; il marito David, un uomo d’affari, sogna una vita diversa, sovrabbondante di ricchezze e di piaceri sessuali.
L’operina scorre veloce e gradevolissima con i suoi ammiccamenti alla musica jazz. Fu commissionata a Samuel Barber dall’amico Gian Carlo Menotti nell’ambito di un’iniziativa rientrante nel programma del suo Festival dei Due Mondi e che consisteva nella presentazione di pezzi musicali di una durata compresa fra i tre e i quindici minuti. Così, il 17 giugno 1959 e cioè l’anno successivo a quello della fondazione del Festival, al Teatro Caio Melisso di Spoleto fu rappresentata “A Hand of Bridge”, di cui lo stesso Menotti stese il libretto.
“Il castello del principe Barbablù”, invece, è un atto unico rappresentato per la prima volta al Teatro dell’Opera di Budapest il 24 maggio del 1918 e rielaborato nella versione definitiva nel 1921. Viene riproposta, aggiornata alla sensibilità di inizio novecento, la nota fiaba di Charles Perrault del 1697. Il libretto dello scrittore Béla Balázs ne trae una vicenda nera, anzi nerissima, carica di un simbolismo difficile da decifrare e comunque accostabile solo in chiave psicoanalitica.
Si racconta di una fanciulla luminosa ed aperta alla vita, Judit, che si innamora dell’oscuro e misterioso Barbablù. Questi appare serrato in un mondo impenetrabile, gelido e tenebroso, che Judit vuole spalancare alla vita, alla luce, e riscaldare con il suo stesso corpo. Il simbolo di questo universo interiore tetro e precluso a chiunque è il castello ove Barbablù conduce la sposa, che così è autorizzata a penetrare nell’anima del principe ma non fino in fondo, dal momento che sette porte devono rimanere serrate e sbarrate anche per lei. Ma può una donna accontentarsi di possedere solo una parte della personalità dello sposo? No; Judit vuole rinfrescare e rinnovare con la sua presenza femminile anche i penetrali più oscuri della psiche di lui, abbracciandoli in nome dell’amore che la sostiene. Così ottiene da un recalcitrante Barbablù che le sette porte una dopo l’altra vengano aperte, mostrando scenari differenti ma tutti segnati dal sangue o dalle lacrime, quindi da una sofferenza indicibile e tenuta nascosta a chiunque.
Dietro la settima ed ultima porta, infine, si svela l’ultimo, decisivo segreto, quello riguardante le precedenti mogli di Barbablù. La soglia spalancata, infatti, rivela tre donne riccamente vestite e cariche di gioielli, alle quali si unisce Judit come la donna della notte, mentre le altre rappresentano l’alba, il mezzogiorno ed il crepuscolo. La settima porta si serra definitivamente dietro di loro, custodite gelosamente da Barbablù in un ricordo perenne che le mantiene intatte ed immutabili come in un monumento funebre.
La realizzazione musicale delle due opere è affidata, al Teatro La Fenice, a Diego Matheuz, che è stato direttore musicale principale del Teatro dal 2011 al 2015. Il risultato è eccellente, tanto nell’opera mignon di Barber, la cui leggerezza e volubilità è messa bene in risalto dal maestro, quanto in quella, ben più impegnativa, di Bartók, la cui lussureggiante orchestra, giustamente considerata da Matheuz il terzo protagonista dell’opera, si dispiega in tutte le sue straordinarie potenzialità espressive e cromatiche. Il golfo mistico, quindi, racconta ciò che avviene sul palcoscenico con una potenza drammatica ed una varietà di accenti psicologici ed umani che né il canto, una sorta di recitativo che guarda al “Pelléas et Mélisande” di Debussy, né il libretto, possono raggiungere.
Grazie alla mediazione appassionata e competente di Matheuz e alla partecipe collaborazione dell’Orchestra della Fenice, insomma, è dal sinfonismo di Bartók, straordinariamente ricco e comunicativo con la sua geniale ed esuberante fusione di elementi impressionisti ed espressionisti con altri di matrice popolare, che giungono tutti i trasalimenti ed i ripiegamenti dell’oscura psicologia di Barbablù, le ingenue e insieme caparbie velleità femminili di Judit e, soprattutto, la voce misteriosa e sotterranea del castello, che svela ciò che Barbablù non è in grado di comunicare di se stesso.
Il cast è appropriato e bene in parte nell’operina di Barber: Sally è il mezzosoprano Manuela Custer, Bill il tenore Christopher Lemmings, Geraldine il soprano lituano Aušrine Stundyte, David il basso-baritono Gidon Saks. Gli ultimi due li ritroviamo in Bartók. Il soprano è una straordinaria Judit, sia per l’ottimo controllo dei poderosi mezzi vocali che le consentono di non farsi soverchiare dalla ribollente orchestra di Bartók, sia per la dedizione con cui si cala nel personaggio. Saks, a sua volta, è un intenso e concentrato Barbablù, anche se lo strumento non lo asseconda sempre in maniera adeguata e l’emissione, talvolta brusca e ruvida con suoni di conseguenza sgradevoli, sacrifica qualcosa della tetra nobiltà del personaggio. Il prologo è stato ben interpretato, in lingua italiana, dall’attore bolzanino Karl-Heinz Macek.
La messa in scena, una nuova produzione della Fenice, è affidata alla regia di Fabio Ceresa, con le scene di Massimo Checchetto, i costumi di Giuseppe Palella, le luci di Fabio Barettin, i movimenti coreografici di Mattia Agatiello. E il risultato, va detto subito, deve considerarsi semplicemente eccellente.
Nell’operina di Barbier, il rischio della staticità, insito nel mettere in scena una partita a carte, viene superato sia muovendo ed animando i personaggi, che vivono anche fisicamente e non solo mentalmente le loro immaginazioni, sia visualizzando i desideri di ognuno, che vengono così rappresentati sul palcoscenico; nelle gradazioni del rosa questi ultimi, a simboleggiare le attrattive di un mondo fantasticato e quindi edulcorato, mentre la realtà è tutta sui toni del grigio, chiara rappresentazione della monotonia e della ripetitività del quotidiano.
Per quanto riguarda, invece, Bartók, il regista disegna lo spettacolo all’interno di un rigoroso schema interpretativo, in base al quale Judit, in quanto donna della notte, è anche la donna della fine della vita, mentre le altre tre rappresentano la giovinezza (l’alba), la maturità (il mezzodì), la vecchiaia (il crepuscolo). La donna della notte, quindi, simboleggia la morte, in presenza della quale Barbablù è chiamato a fare un consuntivo della propria vita, spalancando le sette porte che la rappresentano.
Questa lettura, come tutte quelle che cercano di racchiudere un’opera d’arte sovrabbondante di simboli e di allusioni intellettuali all’interno di una visione coerente ed univoca, mostra qualche punto debole. Come giustificare, infatti, l’interpretazione positiva che il regista dà del contenuto delle stanze numero tre (la sala del tesoro), quattro (il giardino), cinque (il regno del principe) come il frutto dell’impegno e del lavoro dell’uomo dispiegati nel corso della vita, se tutti e tre questi ambienti sono bruttati dal sangue? E, soprattutto, come può Judit rappresentare la morte se, al momento di diventare la quarta sposa di Barbablù, cerca di sottrarsi spaventata al suo triste destino?
Ma questi sono particolari di secondaria importanza. Ciò che conta, invece, è che la solida chiave di lettura adottata dal regista permette di conferire unità e coerenza ad uno spettacolo di grande bellezza visiva e di penetrante efficacia teatrale, nel quale Ceresa e i suoi collaboratori trasfondono il meglio della loro immaginifica fantasia.
Il palcoscenico è dominato da una grandiosa maschera di ispirazione ellenica, che raffigura il volto di Barbablù; nel corso dell’opera si apre verticalmente a metà presentando i vari ambienti cui introducono le porte. Si susseguono così, in un crescendo di splendore teatrale mai fine a se stesso e sempre pertinente alla situazione raccontata: una camera della tortura in cui un doppio di Barbablù si contorce dibattendosi fra un groviglio di fili; l’armeria, dominata da un’imponente statua raffigurante un guerriero medioevale; una scintillante sala del tesoro rutilante di luci e di ispirazione arabeggiante; il giardino, racchiuso all’interno di una mirabile architettura goticheggiante; un trono spettacolare e grandioso di ispirazione induista a rappresentare il regno di Barbablù. La sesta porta invece non si apre; il lago di lacrime di Barbablù viene quindi rappresentato, davanti alla maschera serrata, sotto forma di un omaggio a Venezia, con una gondola che solca le tragiche acque e dei mimi che le attraversano e le animano.
La settima porta, infine, si apre sulla visione di un ambiente inondato da una luce abbacinante nel suo candore, che illumina quattro seggi di cui tre sono occupati dai doppi di Barbablù rappresentanti le tre diverse età dell’uomo, mentre il quarto è vuoto ed è destinato ad accogliere il protagonista, votato alla morte. Quando entrano le tre spose del principe riccamente acconciate, ognuna si accosta al suo sposo di riferimento a seconda che si tratti della donna dell’alba, del meriggio o del tramonto, mentre a Judith non resta che occupare il quarto seggio accanto a Barbablù. Va ricordato, infine, che in ogni ambiente è presente un doppio di Barbablù che viene baciato da Judith, che così, spiega il regista, lo perdona, lo purifica dal peso della vita, preparandolo alla morte.
In conclusione, si assiste ad una sequenza di invenzioni teatrali e scenografiche la cui raffinata ed insieme esuberante spettacolarità sembra richiamarsi al principio barocco della stupefazione e alla cui riuscita contribuiscono in egual misura, oltre ovviamente alla regia, anche le scene, i costumi e le luci, senza trascurare il pregevole apporto coreografico della Fattoria Vittadini con i suoi danzatori. Solo alla regia, invece, va ascritto il merito della grande cura con cui sono studiati i movimenti dei due protagonisti, mai abbandonati a se stessi ma sempre accompagnati nella definizione di una gestualità vivida ed eloquente fino ai limiti dell’espressionismo.
Alla domenicale del 19 gennaio cui si riferisce questa cronaca, un teatro che accusava qualche imperdonabile vuoto ha risposto alla inconsueta ma entusiasmante proposta con un successo pieno di partecipazione e cordialità.
Adolfo Andrighetti