La cultura, la bellezza e la fenice vincono il covid-19
È giusto cominciare così, con una nota non tanto di semplice ottimismo ma piuttosto di quella gioia che la Fenice mi ha saputo dare così spesso nel corso degli anni, questa cronaca che cronaca non può essere, per lo meno non come le altre, ma è prima di tutto una dichiarazione d’amore per il teatro che non vuole piegarsi alle sventure ma sa mettersi alla prova, rilanciarsi, reagire. E così mette in scena non soltanto concerti o recital, ma un’opera vera e propria, “Ottone in villa” di Antonio Vivaldi, nonostante le innumerevoli difficoltà di preparazione ed esecuzione che questa scelta comporta. Certo, con il pubblico distribuito fra i palchi ed il palcoscenico verso il quale guarda anche il direttore (la piccola orchestra è disposta in platea dalla parte dell’ingresso), i cantanti, che si muovono su di una piattaforma che copre il golfo mistico, sono costretti a girarsi ora di qua e ora di là, mostrando sempre le spalle a qualcuno. Quindi la resa acustica è variabile e chissà se potrà essere migliorata studiando degli aggiustamenti nella collocazione degli attori dello spettacolo e del pubblico. Ma già così la ripresa ha qualcosa di miracoloso.
“Ottone in villa”, dunque, dramma per musica in tre atti che fu dato il 17 maggio 1713 al Teatro delle Grazie di Vicenza, appena aperto e già in competizione con il tradizionale Teatro di Piazza o delle Garzerie. La vicenda non è moralmente edificante, anzi. Il libretto di Domenico Lalli, infatti, tratto a sua volta da quello scritto da Francesco Maria Piccioli per l’opera “Messalina” musicata da Carlo Pallavicino, racconta della dabbenaggine dello smidollato imperatore romano Ottone. Questi, dedito agli ozi campestri in villa quando, invece, il dovere lo chiamerebbe a Roma, è talmente innamorato della volubile sposa Cleonilla da non avvedersi che è un’adultera seriale, incapace, per sua stessa ammissione, di resistere al fascino del primo giovanotto che le passi accanto. Cleonilla, inoltre, è una donnina non solo di costumi disinibiti ma anche particolarmente scaltra, capace di infinocchiare Ottone a piacimento impedendo che si accorga delle corna che ha in capo e riuscendo, anzi, nel capolavoro di farsi chiedere più volte scusa da lui.
L’amoralità dell’opera di Vivaldi, però, sta soprattutto in un lieto fine che, un po’ sulla falsariga di quanto succede nell’”Incoronazione di Poppea” di Monteverdi, premia la scaltrezza libertina sull’onestà. Cleonilla, infatti, passa senza pagar pegno attraverso i suoi amorazzi prima con Caio e poi con il paggio Ostilio (in realtà una donna, Tullia, travisata da uomo per stare vicina a Caio di cui è innamorata); e, dopo aver appagato i propri capricci, ritorna indenne alla sicurezza della vita coniugale grazie al matrimonio fra Caio e Tullia, matrimonio che consente il recupero della normalità. L’imperatore Ottone, invece, che ha fatto di tutto, riuscendoci perfettamente, per non accorgersi delle tresche della sposa, fa la figura del cornuto contento e innamorato, e il suo severo consigliere Decio quella del moralista brontolone, sempre inascoltato e anche un po’ ridicolo.
La trama, scioccherella assai e convenzionale nonostante quel suo continuo oscillare fra dramma e farsa, è il pretesto per un susseguirsi elettrizzante di arie una più avvincente dell’altra, che Antonio Vivaldi, già incoronato dalla gloria come compositore strumentale, sciorina con una vena felicissima, incantando ed esaltando. Ed è strabiliante la capacità di questa musica di donare, almeno nei momenti più ispirati, un’esperienza estetica al livello più alto, là dove la semplice ammirazione lascia il posto al turbamento ed alla commozione.
Il demiurgo di questa festa della musica e della bellezza è il maestro Diego Fasolis, che vive con passione e insieme assoluta lucidità l’universo sonoro di Vivaldi, entusiasmandosi per il debutto nell’”Ottone” nonostante la sua lunga e meritoria esperienza con i lavori del compositore veneziano. Lo asseconda al meglio l’Orchestra della Fenice in compagine ridotta ed un cast di solisti che va accomunato in un unico, commosso abbraccio per la bravura, la dedizione, la preparazione, così come ha fatto il pubblico, che ha gremito tutti i posti disponibili, al termine dello spettacolo. C’erano commozione e riconoscenza, in quegli applausi scroscianti, affettuosi, instancabili, perché l’arte, la bellezza e la Fenice non si arrendono ai colpi della vita per quanto pesanti, ma anche il riconoscimento di una professionalità di eccellenza. Parliamo di tutte le interpreti femminili senza eccezioni, da Giulia Semenzato, Cleonilla dalla aggraziata e ammiccante femminilità, a Sonia Prina, artista di alta classe e qui Ottone assolutamente convincente, da Lucia Cirillo, ardente ed impetuoso Caio, a Michela Antenucci, impeccabile Tullia. Ha convinto meno il Decio dall’emissione artefatta di Valentino Buzza, comunque e giustamente coinvolto nella festa generale.
Eccellente anche il lavoro compiuto sul piano teatrale dal regista Giovanni Di Cicco (impianto scenico di Massimo Checchetto, costumi di generica atemporalità ma appropriati di Carlos Tieppo, luci di Fabio Barettin), che ha saputo animare lo spazio disponibile – in sostanza quello della buca orchestrale coperto con una piattaforma digradante verso la platea – conferendo vivacità, sensualità, pregnanza ai movimenti dei solisti. Al di là della intenzione programmatica di usare le distanze imposte dal Covid-19 per mettere in scena una storia di non-relazione e quindi di solitudine, la cosa più importante è che gesti ed atteggiamenti sono studiati con attenzione e, grazie anche alla bravura ed alla disponibilità degli interpreti, danno vita ed anima ad uno spettacolo che non è mai statico o noioso.
Insomma, grazie, cara Fenice, grazie di cuore per questa riapertura coraggiosa e di altissimo livello. Siamo tutti con te.
Adolfo Andrighetti
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