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RIPRENDERE A FARE OPERA: COME SI PUÒ E MEGLIO CHE SI PUÒ

22/09/2020
RIPRENDERE A FARE OPERA: COME SI PUÒ E MEGLIO CHE SI PUÒViene chiamata comunemente “trilogia Tudor”. Sono le te opere – “Anna Bolena” del 1830, “Maria Stuarda” del 1834, “Roberto Devereux” del 1837 – che Gaetano Donizetti dedicò alle truci vicende di quella grande e crudele dinastia, che occupò il trono inglese lungo tutto il XVI secolo e si concluse con Elisabetta I, morta nel 1603.
Ed è proprio attorno alla figura di quest’ultima, potente sovrana artefice della grandezza economica e militare inglese, ma anche donna combattuta e controversa, che Donizetti e il prestigioso librettista Salvatore Cammarano costruirono “Roberto Devereux”, tragedia lirica in tre atti rappresentata per la prima volta al Teatro San Carlo di Napoli il 28 ottobre 1837.
La vicenda, per la quale Cammarano si ispirò a “Il conte di Essex”, libretto di Felice Romani messo in musica da Saverio Mercadante (1833), ha un unico e indiscusso protagonista. E non è certo colui che dà il titolo all’opera. Infatti Roberto Devereux conte di Essex, tenore, è una sbiadita figura di amoroso romantico, che si compiace della propria infelicità perché ama, seppure riamato, una donna sposata, Sara, mentre non osa dire in faccia alla donna che lo ama appassionatamente, cioè Elisabetta, che di lei non vuol sentir parlare.
Tanto meno può occupare il centro della scena il duca di Nottingham, baritono relegato nel ruolo classico del tradito e in questo caso due volte: dalla moglie Sara, che ama Roberto seppure castamente, e dal suo migliore amico, appunto Roberto, che gli concupisce la sposa.

Di maggior rilievo è la figura di Sara, alla quale Donizetti riserva alcuni momenti musicali di notevole intensità emotiva. Ma non vi è dubbio che, in quest’opera, tutto, ma proprio tutto, quindi dramma, musica, canto, ruota attorno ad Elisabetta, che giganteggia sugli altri per la forza travolgente e lacerante dei sentimenti e per il canto ad alta tensione drammatica con cui li manifesta.
La regina è portata dal temperamento ad esercitare il ruolo assegnatole dalla storia in maniera assolutamente autoritaria, anzi imperativa. Ma dietro la maschera di un potere brandito senza debolezze, si nasconde e si agita una sensibilità femminile resa vulnerabile dalla passione travolgente per Roberto ed esacerbata dalla sofferenza perché quel sentimento non è ricambiato. La gelosia feroce dovuta alla presenza di una rivale, insieme all’orgoglio ferito della sovrana respinta a vantaggio di un’altra donna, la trascinerebbero verso la vendetta; ma questo sentimento, non appena concepito, si mescola con il timore ed il rimorso di poter essere la causa della rovina della persona amata.
Così Elisabetta, dopo aver rifiutato la grazia a Roberto accusato ingiustamente di tradimento verso la corona, per tutta la seconda metà dell’opera rimane dolorosamente spaccata fra l’impulso a vendicarsi e la speranza che il giovane possa comunque salvarsi, esibendo un anello che Elisabetta stessa gli aveva donato a garanzia della sua perpetua protezione. Finché, alla notizia che la condanna a morte di Roberto è stata eseguita e quindi tutto è finito, Elisabetta si abbandona al proprio dolore inconsolabile e dichiara di abdicare a favore di Giacomo. Non prima, però, di aver assestato l’ultimo colpo d’artiglio da sovrana assoluta, consegnando al carnefice il duca di Nottingham e la moglie Sara: il duca, colpevole di aver cercato e voluto la morte del rivale impedendo alla moglie di giungere in tempo da Elisabetta per recarle l’anello salvifico; Sara, invece, per la sola colpa di essersi interposta, seppure inconsapevolmente, fra la regina e l’oggetto del suo amore.

Un personaggio così diversificato sul piano psicologico, così dolorosamente spaccato fra sentimenti contrastanti, così umanamente complesso e provato, si esprime tutto nel canto, grazie ad una linea che alterna i recitativi imperiosamente scanditi agli intimistici ripiegamenti lirici, la declamazione incalzante con improvvise e rabbiose ascese verso l’acuto alle distese aperture melodiche: una scrittura assai impegnativa sul piano tecnico, oltre che particolarmente faticosa su quello psicologico e drammatico. Ne fu interprete magistrale Montserrat Caballé nell’ormai lontano 1972, in occasione dell’ultima rappresentazione di “Roberto Devereux” alla Fenice prima di questa; e io, ragazzo, ebbi la fortuna di poter ammirare in quell’occasione il grande soprano catalano, all’apice del proprio percorso artistico.
Il ricordo vuole essere solo un omaggio doveroso al mitico soprano e non intende avviare confronti di alcun tipo con l’interprete di oggi, la brava e dotata Roberta Mantegna. Bisogna tuttavia riconoscere che il ruolo impervio di Elisabetta non è ancora nelle corde della trentaduenne artista palermitana, che ha dalla sua mezzi doviziosi e un timbro non privilegiato nel medium ma pronto ad illuminarsi scintillante man mano che la notazione sale, però non ancora quel fraseggio espressivo, bruciante, fremente, senza il quale il ruolo non può ritenersi risolto adeguatamente. In particolare al soprano manca il coté regale, per cui, senza il contrasto fra l’arroganza della regina e la sofferenza della donna, il personaggio non emerge come dovrebbe. Insomma, non basta avere tutte le note ed alcune anche molto belle come quelle situate in zona acuta, per essere una credibile Elisabetta, per cui l’interpretazione rimane nel complesso generica, scolastica, suscettibile comunque di essere migliorata e approfondita, considerate le grandi potenzialità dell’artista.

Il fuoco che Elisabetta non sembra possedere arde invece con vigore nelle vene del Roberto Devereux di Enea Scala. Il tenore affronta la parte con impeto e ardente passionalità, privilegiando un canto vigoroso, a tratti muscolare, che si fa apprezzare per la tenuta e la resistenza, oltre che per lo slancio trascinante, ma alla lunga può incorrere nel rischio della monotonia. Qualche volta l’artista riesce ad alleggerire l’emissione per sonorità più raccolte e meno spinte, come nel duetto con Sara, ma presto l’istinto o l’impostazione tecnica o entrambi lo riportano alla sua abituale esuberanza. Il tenore è stato acclamato con entusiasmo dal pubblico e ci sta. Tuttavia, fermi restando i suoi indiscutibili meriti, ha trascurato la componente lirica, intimista, disarmata, di Roberto, senza la quale – e senza il contrasto fra questa e la componente eroica, impetuosa – non solo Roberto ma qualunque eroe romantico risulta impoverito se non addirittura dimidiato. Si sarebbe fatta preferire, poi, una postura scenica più sobria e meno convenzionale: un piede davanti e l’altro dietro, le braccia spalancate o chiuse sul cuore...; si sperava che questi atteggiamenti fossero ormai relegati nell’archivio delle piccole cose di pessimo gusto.

La donna contesa è Sara, affidata al mezzosoprano russo Lilly Jørstad. L’artista possiede mezzi adeguati, emissione omogenea, sonorità che passano per tutto il teatro, un’apprezzabile carica emotiva con efficaci sottolineature drammatiche. Ma risultano perfettibili la cantabilità e l’abbandono patetico, soverchiati da un istinto passionale caratteristico della scuola di canto russa, più portata ad assecondare l’estroversione e il vigore vocale che le sfumature. L’artista, poi, esagera in scena, con una gestualità plateale da diva del cinema muto che in certi momenti suscita il sorriso.
Alla fine, il più adeguato al ruolo è sembrato il baritono Alessandro Luongo, Nottingham dalla emissione morbida e molto ben gestita, dal bel timbro rotondo, dalla nobile linea di canto, soprattutto dalla ammirevole varietà di accenti, colori, dinamiche. Inoltre, senza far nulla di speciale, mantiene in scena una postura composta e stilizzata, come si conviene ad un duca e lord, che ha uso di mondo e della corte regale. Un limite? La puntatura in acuto non è impeccabile, suona un po’ tesa e forzata: evitarle, almeno finché si può, oppure rivedere qualcosa nell’imposto.

Il tenore Enrico Iviglia scandisce bene le battute assegnate all’implacabile Lord Cecil, mentre Luca Dall’Amico riesce a dare qualche saggio della propria bella vocalità di basso nella pur breve parte di Sir Gualtiero Raleigh. È stato un piacere, inoltre, rivedere e riascoltare, sotto la guida del maestro Claudio Marino Moretti, il coro della Fenice, al quale sembra manchi solo di tornare con continuità al lavoro per riprendere tutta la sua ormai proverbiale intensità ed omogeneità di suono.
Così come è stato un autentico piacere poter applaudire di muovo il maestro Riccardo Frizza, che sottolinea volentieri gli impeti romantici della partitura, pur prestando attenzione anche a quelle tinte malinconiche, a quelle screziature elegiache, senza le quali Donizetti non è più lui. In proposito, la sensibilità con cui sono stati restituiti alcuni accompagnamenti è stata addirittura rivelatrice. Inoltre, il maestro si conferma eccellente concertatore, capace di dare respiro al canto ed all’orchestra: una qualità indispensabile in modo particolare nel repertorio del primo romanticismo italiano.

Dello spettacolo (regia Alfonso Antoniozzi, luci Fabio Barettin) non c’è gran che da dire, visto che è stato proposto in forma semiscenica e con tutti i limiti imposti dal Covid19. Il glorioso basso comico, da alcuni anni impegnato ad investire esperienza ed intelligenza anche nel campo della regia, schiera il coro ordinatamente in palcoscenico e regola gli spostamenti dei solisti nella zona del proscenio. Ci si chiede, però, se non avrebbe potuto fare qualcosa di più per suggerire agli artisti di adottare qualche gestualità più appropriata e di evitarne altre, invece, ormai obsolete. La scenografia è costituita dalla ben nota carena di nave, gli arredi scenici da un trono regale per Elisabetta, un tronetto meno impegnativo per la duchessa Sara. Le luci accompagnano ed assecondano con efficacia i diversi momenti della vicenda. Di più e meglio è difficile fare in questa contingenza.

Alla rappresentazione cui si riferiscono queste note, la serale di giovedì 17 settembre, il pubblico ha reagito con gioia e gratitudine alla proposta, sia per il suo oggettivo valore artistico, sia per l’incoraggiante ritorno di una prima, seppure parziale e provvisoria, normalità. Il palcoscenico, infatti, è stato restituito agli interpreti e la platea agli spettatori. E pazienza se quest’ultima risultava tristemente semivuota, con una fila agibile che si alterna ad una lasciata vuota e così via; e con le file disponibili per il pubblico occupate un posto sì ed uno no. Ciò che conta è riprendere a fare teatro musicale, tutti insieme, ognuno per la propria parte, aspettando tempi migliori ma anche costruendo meglio possibile il presente.

Adolfo Andrighetti

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