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AL MALIBRAN, VIVALDI DIVENTA SPECCHIO DELLA VIOLENZA D'OGGI

06/07/2021
AL MALIBRAN, VIVALDI DIVENTA SPECCHIO DELLA VIOLENZA D'OGGIDopo “Orlando furioso” (2018), “Dorilla in Tempe” (2019) e “Ottone in villa” (2020), il prezioso mosaico del Vivaldi operistico che la Fenice sta ricostruendo si arricchisce di una nuova tessera. È “Farnace”, dramma per musica in tre atti, che esordì il 10 febbraio 1727 al Teatro Sant’Angelo di Venezia e, in seguito, fu oggetto di numerose riprese e rimaneggiamenti, fino a seguire la sorte di tutta la produzione operistica vivaldiana: cioè, fu dimenticato.
Il libretto del veneziano Antonio Maria Lucchini possiede una sua dignità letteraria, anche se si presenta coturnato ed ingessato fino al ridicolo, oltre che enfatizzato negli aspetti più truculenti e privo di quella vena ironica e financo comica spesso presente, invece, nella produzione barocca veneziana. Nulla attenua, dunque, quel sentore di eleganza museale che da quei versi giunge fino al lettore di oggi.

Tentare una sintesi della vicenda non è semplice, tanto i fatti si ingarbugliano nell’intreccio inestricabile delle relazioni che uniscono e contrappongono i personaggi. Vediamo Farnace, figlio del defunto Mitridate re del Ponto e sposo di Tamiri, in lotta contro la regina Berenice sua suocera e il romano Pompeo, fra loro alleati.
Berenice attraversa i tre atti come un’Erinni scatenata e assetata di sangue, invasata dall’ossessione di vendicarsi, colpendo Farnace e il figlioletto di lui, del male che le ha fatto Mitridate. Ma ce l’ha anche con Farnace personalmente, se non altro perché ha sposato, contro il suo consenso, la figlia di lei, appunto Tamiri. Pompeo, invece, è più sereno; ciò che gli interessa è la gloria di Roma, non ha vendette personali da consumare.
La povera Tamiri, stretta fra una madre che è una furia e un marito il cui unico pensiero è morire da eroe, cerca di barcamenarsi provando a mettere pace di qua e di là, anche perché deve preoccuparsi della salvezza del figlioletto.
In questa vicenda rigurgitante di fieri se non feroci sentimenti, il tema amoroso e passionale è presente solo in secondo piano. Lo incarna, a parte la devozione sponsale che Tamiri mostra verso Farnace, la sorella di questi Selinda, la quale fa leva sulla passione che Gilade, generale di Berenice, e Aquilio, braccio destro di Pompeo, nutrono verso di lei, per usare entrambi, l’uno all’insaputa dell’altro, a vantaggio di Farnace. Anche qui si tratta di ammazzamenti, che per fortuna non andranno in porto.

Quindi, mentre tutti schiumano rabbia e manifestano propositi di morte tranne la malcapitata Tamiri, giunge il più improbabile e forzato lieto fine della storia del melodramma. La feroce Berenice, che, per salvarsi, era arrivata al punto di farsi scudo della figlia minacciando di pugnalarla, improvvisamente è folgorata sulla via di Damasco, dichiara di aver capito che il suo odio è condannato dagli dei, chiama figlio Farnace come la più mite delle suocere e benedice le nozze di Gilade con Selinda. Con lei tutti si placano e il buon Pompeo chiude la vicenda dicendo, più o meno: vabbè, facciamo come se non fosse successo niente, Farnace si tenga il suo e vogliamoci bene...
Il punto di forza dello spettacolo proposto al Teatro Malibran è rappresentato dalla direzione di Diego Fasolis alla guida dell’orchestra e del coro della Fenice e dalla prestazione della parte femminile del cast, di alto livello soprattutto nella Tamiri di Sonia Prina e nella Berenice di Lucia Cirillo.
La partitura di Vivaldi è meravigliosamente varia per motivi ispiratori, colori, dinamiche; spazia dal drammatico al galante, dal sensuale al grandioso, mostrando la sicurezza disinvolta di un compositore che sa come catturare il favore del pubblico sorprendendolo e deliziandolo. Alcune arie, poi, sono semplicemente splendide e i recitativi svolgono una fondamentale funzione drammatica, quindi devono essere resi con particolare attenzione.

Tutti questi fattori sono gestiti come meglio non si potrebbe dal maestro Fasolis, profondo conoscitore non solo di Vivaldi in generale ma in particolare di questa partitura avendola registrata in studio, pronto a restituirne tanto lo spirito e l’architettura complessivi quanto ogni particolare, ogni sfumatura, con assoluta competenza, cura e passione. Dell’esecuzione di Fasolis andrà evidenziato anche quello che si potrebbe chiamare spirito teatrale, cioè la capacità di raccontare una vicenda nel suo svolgersi musicale e quindi drammatico; perché così fa Vivaldi, che mette in scena, rappresenta una storia con le sue note, le quali, quindi, non possono essere interpretate in maniera astratta, asettica, senza il respiro del dramma. Da ultimo, come già si accennava, andrà sottolineata la resa dei recitativi, impetuosi, incisivi, patetici, crudeli a seconda dei casi, molto ben interpretati dagli artisti sotto la guida sicura di Fasolis.
Nel cast, si diceva, emergono Sonia Prina e Lucia Cirillo. La prima mostra di conoscere alla perfezione la poetica di Vivaldi, basata sulla meraviglia suscitata dal cangiare continuo degli affetti. Così dà vita ad una Tamiri capace di giocare, sulla vena affettuosa e patetica che caratterizza il personaggio, con una ammirevole varietà di fraseggio, colori ed accenti, cui si è aggiunta un’emissione sempre omogenea, legata, stilisticamente ineccepibile.
Lucia Cirillo, a sua volta, si è calata con la consueta efficacia nello sgradevole personaggio dell’implacabile Berenice, imponendosi sia per l’assertiva presenza scenica sia per la forza drammatica di un canto incisivo, impetuoso, trascinante e nello stesso tempo sempre controllato ed assestato stilisticamente e tecnicamente.
La Selinda di Rosa Bove è sempre corretta ed efficace, ma, nonostante gli sforzi della regia che in un’occasione la fa anche castamente spogliare, è carente sul piano della seduttività, che è la caratteristica qualificante del personaggio. Certo non l’aiutano le abbondanti vesti di foggia mediorientale in cui rimane avviluppata e quasi occultata per la maggior parte dello spettacolo.
La parte maschile del cast fa da contorno e corona a quella femminile. Si segnala il Gilade del controtenore coreano-americano Kangmin Justin Kim, che in avvio suona un po’ puntuto e spigoloso, poi si rinfranca e piace per il timbro limpido e cristallino ed un’impostazione tecnica ineccepibile, che ha modo di mettersi alla prova anche in una riuscita messa di voce, cioè nell’esecuzione di una nota prima in crescendo fino ad un certo livello di intensità e poi in diminuendo.
Il Farnace del tenore di Lubecca Christoph Strehl si mette in evidenza per il physique du role, per l’impegno con cui si butta nella definizione scenica di un personaggio agitato fino alla nevrosi e per la buona dizione, apprezzabile anche per l’origine tedesca dell’artista. Ma sul piano vocale rimangono molti dubbi, dovuti soprattutto ad un’emissione dura e disomogenea. Nella splendida aria “Gelido in ogni vena”, il vocalista lascia il passo all’interprete, che conduce in porto il cimento anche in virtù della tessitura medio-grave del pezzo.
I due romani, cioè il Pompeo del tenore Giuseppe Valentino Buzza e l’Aquilio del collega di registro David Ferri Durà, spagnolo, fanno il loro con professionalità. Il primo presenta un’emissione poco fluida e spontanea, che lo penalizza nei recitativi, mentre le arie sono restituite con la giusta baldanza pur nella disomogeneità dei registri. Il secondo possiede uno strumento ben impostato e dal timbro gradevole, ma corto in alto.
Non dimentichiamoci, anche questa volta, del coro del Teatro diretto da Claudio Marino Moretti: due soli interventi ma di peso drammatico e sonoro, eseguiti con la consueta autorevolezza.

Ed ora la messa in scena, dovuta al francese Christophe Gayral per la regia, coadiuvato da Rudy Sabounghi per le scene, Elena Cicorella per i costumi, Giuseppe Di Iorio per le luci. In palcoscenico si vede uno squallido, triste scenario di guerra, con un fondale completamente nero contro il quale si stagliano delle rozze strutture in muratura in numero variabile da uno a tre a seconda delle scene. All’interno di questa cornice si svolge un conflitto bellico mediorientale dei giorni nostri, con soldati e guerriglieri che vanno e vengono attrezzati con le consuete tute, passamontagna da combattimento, anfibi militari, armi da fuoco di tutti i tipi. L’insieme dà la sensazione non incoraggiante del risaputo, del già visto tante volte, oltre che di un’essenzialità costretta più che voluta. Certo, i limiti imposti dal covid e dalle ristrettezze economiche non sono facilmente superabili, ma francamente qui ci si muove fin troppo nel deja vu. Va però riconosciuto che la regia fa del proprio meglio per vivacizzare il palcoscenico inventando situazioni teatrali diverse che spaziano dal violento all’erotico e quindi animando i personaggi, che non sono mai statici e spesso sono impegnati in scene movimentate anche se non sempre del tutto riuscite. Una regia, quindi, che non si accontenta di allestire uno spazio scenico ma dà vita ad una storia, seppure all’interno di un contesto bellico alquanto prevedibile, del quale, comunque, ricostruisce complessivamente con efficacia il clima fatto di sopraffazione e violenza.

Al termine, sorpresa: l’happy end, forzato quanto si vuole, del libretto originale, è sostituito da una carneficina generale operata dai guerriglieri di Farnace, che resta l’unico vincitore su di un tappeto di cadaveri, mentre, insieme a Tamiri, inneggia all’amore e alla pace. Davanti a loro, il figlioletto punta un’arma contro il pubblico, a dirci che la guerra non è finita, che ne abbiamo vissuto soltanto una fase, una tappa, ma si passerà ancora di violenza in violenza fino al punto di coinvolgere anche i bambini in questa spirale terrificante. Scelta azzeccata? Teatralmente forse sì, culturalmente c’è da dubitarne. È chiaro che questo finale è molto più coerente di quello originale rispetto a tutto ciò che lo precede. L’intreccio di odio implacabile, violenza e spirito di vendetta che anima i tre atti non può sgonfiarsi di colpo per lasciare spazio, in maniera repentina ed incoerente, a sentimenti di riconciliazione e di perdono. Tuttavia, se questa era la scelta degli autori, musicista e librettista, va rispettata e valutata alla luce della cultura e del costume teatrale dell’epoca; perché l’una e l’altro vanno studiati, compresi, approfonditi, non ignorati o rimossi negli aspetti che possono urtare la nostra mentalità. Altrimenti, come capire la tradizione da cui veniamo se la appiattiamo sulla sensibilità odierna?

Alla rappresentazione cui si riferiscono queste note – domenica 4 luglio – il pubblico finalmente presente e ben contento di esserci ha decretato un successo cordiale alla proposta, seppure con qualche mite dissenso verso la regia.


Adolfo Andrighetti

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