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ALLA FENICE È FESTA CON HÄNDEL E PIER LUIGI PIZZI

06/09/2021
ALLA FENICE È FESTA CON HÄNDEL E PIER LUIGI PIZZI“Rinaldo” è una delle opere più famose nel ricco catalogo di Georg Friedrich Händel e giustamente, in quanto le gemme melodiche e strumentali vi sovrabbondano. Viene così reso digeribile un libretto mediocre a causa della qualità non eccelsa dei versi e di una drammaturgia traballante per lÂ’alternarsi meccanico delle varie scene, che si giustappongono lÂ’una allÂ’altra spesso in maniera brusca ed incoerente. Il testo poetico è di Giacomo Rossi, che versificò in lingua italiana un soggetto che Aaron Hill aveva tratto dalla “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso aggiungendovi il personaggio dellÂ’amorosa Almirena, la fedele e coraggiosa fidanzata del protagonista.
L’opera riscosse un immediato e clamoroso successo sin dalla sua prima rappresentazione, tenutasi al Queen’s Theatre il 14 febbraio 1711; un successo tanto più significativo in quanto salutò la prima opera in lingua italiana composta per Londra e la prima proposta per quella piazza da Händel, quindi quella che gli aprì la strada ad un quarantennale, memorabile percorso artistico oltremanica.

La vicenda contrappone due coppie completamente diverse per indole e cultura, separate dalla guerra oltre che da un’incolmabile distanza antropologica: da un lato Rinaldo ed Almirena, innamorati l’uno dell’altra, cristiani, il primo giunto in soccorso di Goffredo di Buglione per liberare la Terra Santa dai Saraceni, la seconda figlia dello stesso Goffredo e da lui promessa in sposa a Rinaldo se Gerusalemme sarà liberata; dall’altro Argante, superbo e sprezzante re pagano di Gerusalemme, e la maga Armida, sua amante, donna spregiudicata e dalle mille insidie soprannaturali e non, uniti per opporsi alla spedizione cristiana.
La maga, informata da un responso oracolare che senza Rinaldo i crociati hanno scarse speranze di vittoria, fa ricorso al meglio (o al peggio) del suo repertorio di sortilegi per imprigionare Almirena, sperando così di distogliere l’eroe dalla guerra. E in effetti Rinaldo giunge alla ricerca della sua amata, ma Armida si invaghisce di lui, mentre Argante si innamora di Almirena, il cui stato di vittima infelice ne arricchisce il fascino. Così l’ordine morale e sentimentale, che vede la coppia cristiana unita e fedele nella lotta contro il male, rischia di rompersi per iniziativa naturalmente della coppia trasgressiva e maligna.
Ma non succede nulla, com’è ovvio, anche se Armida giunge ad assumere le sembianze di Almirena pur di sedurre Rinaldo. Goffredo riesce a liberare la figlia, si riunisce al (quasi) genero e con il suo decisivo sostegno sconfigge i Saraceni, liberando Gerusalemme. La gioia della vittoria militare è coronata addirittura da un doppio matrimonio: sì, perché si sposano non solo Rinaldo e Almirena, com’era scontato, ma anche Armida ed Argante, folgorati da un’imprevedibile ansia di conversione e desiderosi di regolarizzare il loro rapporto.
La produzione di “Rinaldo” che la Fenice ripropone è quella che debuttò nel 1985 al Teatro Municipale di Reggio Emilia, dovuta alla elegante ed evocativa fantasia di Pier Luigi Pizzi. In effetti, il mondo barocco, con la sua ricerca di un meraviglioso che si possa proporre sul palcoscenico quasi come un valore estetico assoluto, non mediato o mediato solo in parte dalla vicenda raccontata, si offre con grande duttilità allo stile raffinato e atemporale di Pizzi.
Questi racconta che il suo “Rinaldo” è il risultato di una ricerca condotta sull’opera barocca a partire dall’”Orlando furioso” di Vivaldi rappresentato al Teatro Filarmonico di Verona nel 1978; una ricerca che giunge a prendere atto che l’opera di quest’epoca trae tutta la propria forza drammaturgica non dai libretti, di solito poco stimolanti e significativi, ma dalla musica, “una sorta di motore per creare immagini” secondo l’indovinata definizione del regista.
Lo spettacolo, ripreso dallo stesso Pizzi con l’aiuto del suo storico collaboratore Massimo Gasparon (regia e luci), di Serena Rocco (scene), di Lorena Marin (costumi), è concepito come un gioco di macchine sceniche in continuo movimento, sulle quali si reggono i protagonisti pressoché immobilizzati in quegli atteggiamenti ieratici, solenni, che si addicono al loro lignaggio di eroi ed eroine aureolati dalla leggenda. Le macchine, alcune delle quali di particolare impatto spettacolare come i giganteschi cavalli, sono mosse da un esercito di servi di scena. In questo modo Pizzi rinuncia definitivamente a qualunque residuo di realismo nella sua visione registica, per abbracciare l’invenzione in quanto tale, che non è più mascherata ma svelata e quindi spinta fino al limite estremo senza, per così dire, pudore alcuno. Anche gli ampi mantelli dei personaggi sono continuamente agitati dal personale di scena e, con il loro arioso movimento, sembrano dare ali alla fantasia in una vicenda che esiste in quanto è altro dalla realtà, in quanto è pura proiezione di sogni, forse di archetipi.
Ne esce uno spettacolo unico in quanto rappresenta l’iperbole del barocco come può essere realizzato oggi, con una ricerca del meraviglioso, del grandioso, dello spettacolare tanto più autentica quanto più è esibita con spudoratezza quasi infantile.
Contribuiscono in maniera determinante al gioco sublime gli splendidi costumi di ispirazione favolosa e lÂ’uso sapiente, suggestivo delle luci, che accompagnano con assoluta pertinenza lo svolgersi degli accadimenti in palcoscenico.

Il maestro Federico Maria Sardelli, che ha diretto l’opera alla Fenice, sottolinea che questo primo Händel londinese è ancora molto legato al precedente periodo italiano del compositore, come si intuisce dai numerosi autoimprestiti tratti da precedenti opere veneziane, romane e napoletane. Ma il risultato è sorprendente perché, come accadrà più tardi e in un contesto storico-culturale affatto diverso con Rossini, non si ha alcune sentore di questo lavoro che oggi definiremmo di copia e incolla; la partitura, invece, si presenta come un complesso omogeneo che, secondo la bella definizione dello stesso Sardelli, è “una festa dei colori strumentali”, data dalla esuberante varietà dei colori orchestrali cui il compositore ricorre.
Questa festa è animata dalla direzione vivida e a tratti trascinante del maestro, che forse scandisce con vigore anche là dove sarebbe preferibile concedere più respiro alla musica, ma comunque tiene sempre alta la tensione e viva l’emozione in buca e in palcoscenico. Qui si sono fatti particolarmente apprezzare il Goffredo del tenore Leonardo Cortellazzi, il quale, pur in una parte un po’ defilata, si mostra a proprio agio nel repertorio e stilisticamente irreprensibile, oltre che in possesso di uno strumento di piacevole impasto tenorile; e l’Almirena del soprano Francesca Aspromonte, dalla vocalità levigata, squillante, gestita bene e messa positivamente alla prova con una preziosa messa di voce sull’attacco dell’aria “Augelletti che cantate” e nelle cascatelle di agilità nel finale. Ciò nonostante, la sublime “Lascia ch’io pianga”, per quanto eseguita con assoluta correttezza, richiederebbe più abbandono, più sofferenza interiore, e quindi andrebbe ulteriormente maturata sul piano interpretativo.
Il Rinaldo del mezzosoprano Teresa Iervolino, al netto degli indiscutibili meriti tecnici e stilistici che devono essere riconosciuti all’artista, appare in debito di autorevolezza, incisività ed aggressività vocale nei pezzi di furore come “Venti, turbini, prestate” e “Abbruggio, avvampo e fremo”, mentre appare molto più a proprio agio quando abbandona i coturni dell’eroe e riveste i morbidi panni dell’amante, come nell’aria patetica “Cara sposa, amante cara”.
È sembrata molto promettente la presenza di Tommaso Barea nelle vesti di Argante e del Mago cristiano. In particolare, nella spettacolare entrata di Argante l’artista ha mostrato una voce di basso salda, rotonda e di bel timbro, oltre ad un’apprezzabile sicurezza nelle agilità di forza. Da curare di più, forse, la nettezza e la chiarezza dell’articolazione della parola cantata, un po’ sacrificate nell’emissione alla ricerca del suono “giusto”.
Infine, l’Armida del soprano Maria Laura Iacobellis è una maga brillante, quasi salottiera, ma priva dell’accensione diabolica, infernale, che il personaggio richiede.
Alla fine, alla serale di giovedì 2 settembre, è festa per tutti. Il via lo dà Pier Luigi Pizzi, che, felicemente ignaro della sua venerabile età, guida la corsa di tutti i protagonisti verso il proscenio, a ricevere gli applausi scroscianti di un pubblico finalmente felice ed appagato. Fra i più acclamati, è giusto segnalarlo, lo staff che in scena si è occupato dello spostamento delle macchine gestendone il traffico con applicazione, precisione e notevole impegno fisico.

Adolfo Andrighetti

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