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ALLA FENICE, VA IN SCENA LA FOLLIA DI "RIGOLETTO"

04/10/2021
ALLA FENICE, VA IN SCENA LA FOLLIA DI Arriva finalmente alla Fenice, dopo la tetra pausa imposta dal Covid, lÂ’allestimento di Rigoletto firmato da Damiano Michieletto (scene di Paolo Fantin, costumi di Agostino Cavalca, luci di Alessandro Carletti) per la Dutch National Opera di Amsterdam, ove era apparso nel 2017.
Ma nonostante si dica che oggi il regista è diventato la vera star dell’opera sostituendo tenori e prime donne nell’attenzione generale, sembra opportuno che questa cronaca incominci dalla musica. E ciò nel rispetto di un principio assolutamente condivisibile, secondo il quale la drammaturgia, nell’opera lirica, nasce ed è modellata prima di tutto dalla musica e dal canto, mentre alla messa in scena spetta il compito di esplicitarla, cioè di tradurla in linguaggio teatrale.
Quindi, prima di parlare del Rigoletto di Verdi secondo la lettura di Michieletto, sembra il caso di raccontare del Rigoletto, tutt’altro che scontato e risaputo, proposto da Daniele Callegari a capo dell’orchestra del Teatro La Fenice. Il maestro muove dal postulato del rispetto scrupoloso di quanto scritto da Verdi così come riportato nell’edizione critica della partitura, per consegnarci un Rigoletto sorprendente e, a tratti, quasi indimenticabile, seppure discutibile per certi aspetti. Sotto la stretta della sua scansione serrata, inesorabile si potrebbe dire, l’opera è uscita scarnificata, ridotta all’osso, livida ed inquietante, priva di qualunque autocompiacimento ma riportata all’essenzialità del dramma. Ne vengono esaltati i momenti strumentali, come le poche battute del preludio, mai ascoltate da chi scrive così emozionanti, così strazianti, così disperate. Dopo un incipit di tale verità umana, suonano ancora più meccanici, più inquietanti nella loro falsa allegria, i ritmi della festa nel palazzo del Duca.
Per contro, questa asciuttezza, questo rigore implacabile, talvolta sembra ingabbiare il canto come in una camicia di forza (paragone appropriato dal momento che Michieletto ambienta l’azione all’interno di una clinica per alienati), sacrificando il lirismo di pezzi che richiederebbero più respiro. Caro nome, ad esempio, suona meccanico, prosciugato del suo fascino, che è fatto di abbandono, di sogno. La stessa fine la fa Tutte le feste al tempio, anche se il differente clima musicale ed emotivo del pezzo rende meno vistosa e quindi meno fastidiosa questa operazione di ingessatura.
Alle esigenze del maestro Callegari si adegua con la giusta applicazione e disciplina un cast che ha i suoi punti di forza nel Rigoletto di Luca Salsi e nella Gilda di Claudia Pavone. Il baritono si colloca a pieno titolo fra gli interpreti di riferimento di questo ruolo così arduo e faticoso se lo si voglia affrontare senza adagiarsi nella comoda routine. Il suo strumento poderoso ed ammaliante per sonorità, omogeneità in tutta la gamma, compattezza di suono, bellezza di timbro, oltre che per l’impeccabile intonazione, viene piegato ad una vastissima tavolozza di intenzioni interpretative, dando vita ad una lettura in cui ogni nota non è mai uguale alla precedente, ma cambia, in relazione alla situazione drammatica, per colore, intensità dinamica, accento. Così capita che il sontuoso strumento di Salsi, così appagante per le orecchie dei melomani se spiegato in tutta la sua rotonda bellezza, venga “sporcato”, soprattutto nella scena finale, per raggiungere degli effetti emotivi che altrimenti non sarebbero possibili. Da un lato, per chi ama il belcanto, è un peccato, ma averne di baritoni così. A ciò si aggiunga che l’artista si cala con ammirevole dedizione nell’impostazione registica voluta da Michieletto e sulla scena si muove continuamente avanti e indietro, febbrile, tormentato, come una belva in gabbia, non dimenticandosi anche di trascinare una gamba, mentre braccia e mani sono impegnate in gesti parossistici da alienato come afferrarsi la testa o strapparsi i capelli.
Claudia Pavone, poi, è una Gilda così Gilda da innamorare. Il suo timbro freschissimo, radioso nell’espressione di un accattivante lirismo e di tanto in tanto screziato da un retrogusto lievemente acerbo, in uno con la figura da ragazzina, ci restituisce un personaggio adolescenziale, nel quale la pienezza dei sentimenti e della sofferenza, accolta con consapevolezza matura, acquista un risalto ancora maggiore proprio perché vissuta da una creatura che appare ancora così giovane, così fragile. A tutto questo si aggiunga la padronanza impeccabile dello strumento e otterremo una Gilda di riferimento.
Il Duca di Mantova del tenore peruviano Ivan Ayon Rivas, classe 1993, vive di una spavalderia vocale e scenica che si addice al personaggio. La sua esecuzione alterna momenti in cui il prezioso smalto tenorile e la freschezza dello squillo si impongono, ad altri ove si vorrebbe un suono più arrotondato, più addolcito, forse anche meglio impostato nella maschera, risultato ottenibile attraverso un’emissione più accurata. Gli acuti, in particolare, dovrebbero essere più coperti e controllati, mentre sembrano scagliati un po’ alla brava. Ma l’artista c’è, eccome, anche per un modo guascone di occupare il palcoscenico con assoluta sicurezza, e quindi va atteso con fiducia nei prossimi impegni.
Lo Sparafucile del basso Mattia Denti non è apparso del tutto a proprio agio, ma un po' sulla difensiva, per cui è risultato alla fine quasi scialbo, incolore, comunque al di sotto delle potenzialità del bravo artista.
Adeguati tutti gli altri: la Maddalena del contralto Valeria Girardello, tanto volgare ed esibita nellÂ’atteggiamento scenico quanto corretta sul piano vocale; il Monterone di Gianfranco Montresor, un veterano nel ruolo, che restituisce sempre con il giusto impatto drammatico; la schiera dei cortigiani, fra i quali ricorderemo almeno il Marullo del sempre puntuale Armando Gabba. E poi, come al solito, come sempre, viva il coro della Fenice, istruito da Claudio Marino Moretti.
E veniamo allo spettacolo, tutt’altro che banale, com’era facile immaginare, ma anche di alto livello. Damiano Michieletto immagina un Rigoletto ormai demente perché divorato dal rimorso di essere stato la causa, seppure involontaria, della morte della figlia, ostinandosi in un disegno di vendetta che gli si è ritorto contro. L’ex buffone e complice dello sciagurato libertinaggio del Duca è ora ricoverato in una clinica psichiatrica dalle fredde ed asettiche pareti bianche, all’interno della quale rivive, come in una tragica allucinazione senza fine, le vicende che lo hanno portato a quella condizione.
In particolare, è ossessionato dall’immagine dell’innocenza di Gilda, che rivede anche bambina con il volto coperto da una maschera bianca; quell’innocenza che era una fissazione per lui anche prima della catastrofe e in nome della quale teneva segregata la figlia covandola con un amore talmente possessivo ed esclusivo da essere patologico. E un’ossessione per lui è anche la figura del Duca, incombente, prepotente, minaccioso, che la sacralità di quella innocenza ha violato.
Su questa base Michieletto costruisce uno spettacolo accuratissimo, studiato nei minimi particolari, tutti pertinenti al nucleo centrale della storia e spesso illuminanti, ma, in qualche caso, superflui, nel senso che nulla aggiungono ad una narrazione già esauriente, o eccessivamente didascalici, nel senso che spiegano e rispiegano concetti risaputi. Superflue sono sembrate le proiezioni in bianco e nero che scorrono sullo sfondo, nelle quali viene riproposta l’immagine di una Gilda bambina già molto presente sul palcoscenico; e troppo didascalica è l’insistenza eccessiva, esageratamente caricata, sulla demenza di Rigoletto, che non ha bisogno di gesticolare in maniera forsennata dall’inizio alla fine dell’opera per far capire al pubblico che non è in sé.
Ma nell’insieme ci troviamo davanti ad uno spettacolo non solo di chiara e azzeccata impostazione concettuale, ma anche di eccellente resa teatrale. Uno spettacolo che può essere discusso su alcuni particolari, ma nell’insieme va apprezzato, perché dimostra che, se il regista conosce alla perfezione il mestiere e ama l’opera più di se stesso e cioè più delle proprie idee, si possono osare delle messe in scena anche fortemente innovative o addirittura trasgressive senza offendere l’autore (in questo caso Verdi), il buon senso e il buon gusto; ma, anzi, rivelando e mettendo in evidenza degli elementi fondamentali, in questo caso la follia di Rigoletto, che l’opera può tenere in secondo piano rispetto ad altri.
La rappresentazione di sabato 2 ottobre, alla quale si riferiscono queste note, è stata salutata da un pubblico entusiasta, che ha riservato i consensi più infuocati a Luca Salsi e Claudia Pavone.


Adolfo Andrighetti

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