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FENICE: IN UN HANGAR LA PRIMA CROCIATA

04/04/2022
FENICE: IN UN HANGAR LA PRIMA CROCIATASquadra che vince non si cambia. Nel rispetto di questo che è un luogo comune ma tale non sarebbe se non contenesse una bella dose di vero, Giuseppe Verdi, dopo il successo trionfale di “Nabucco” che aveva raggiunto alla Scala il record da allora ineguagliato delle 57 rappresentazioni consecutive, si rivolse ancora a Temistocle Solera, per la redazione del libretto dell’opera successiva, “I lombardi alla prima crociata”. Che si dette alla Scala, ovviamente, ove il giovane ma lanciatissimo compositore aveva acquisito il diritto di ripresentarsi in grazie appunto del clamoroso esito dell’opera precedente. E che all’inizio fu un secondo trionfo, meno comprensibile del precedente per noi ascoltatori di oggi ma destinato a ridimensionarsi negli anni successivi, a ristabilire quell’ordine corretto delle gerarchie artistiche che di solito è la storia ad incaricarsi di definire una volta per tutte.

Solera ripropose per la nuova opera quella suddivisione del libretto in quattro parti già sperimentata in “Nabucco” e che fa un po’ romanzo d’appendice. Basti pensare che i quattro Atti (in “Nabucco” invece sono Parti, ma non cambia nulla) nei Lombardi portano nell’ordine le seguenti clamorose titolazioni: “La vendetta”; “L’uomo della caverna”; “La conversione”; “Il Santo Sepolcro”.
Ma Solera non riesce a conferire una struttura omogenea né uno svolgimento credibile alla complessa vicenda, tratta dal poema omonimo di Tommaso Grossi; vicenda che, sullo sfondo della riconquista di Gerusalemme da parte dei crociati, vede dipanarsi la storia d’amore fra la cristiana Giselda e il musulmano Oronte, e, soprattutto, il percorso di conversione del nobile lombardo Pagano. Questi, dopo aver ferito il fratello Arvino e assassinato per errore il padre a causa della gelosia, trova la conversione e il riscatto dalle proprie colpe facendosi eremita in Terrasanta e poi conducendo i crociati alla conquista di Gerusalemme, impresa durante la quale incontra la morte.
Del resto, neppure i versi di Solera brillano per armonia o originalità. Ma ai sa che tutto questo era estraneo all’interesse del giovane Verdi, che, in un libretto, cercava soprattutto colpi di scena, forti contrasti emotivi, situazioni estreme, soluzioni drammaturgiche rapide ed incisive: effetti, insomma, sui quali costruire e scatenare la sua musica robusta, irruenta, anche ruvida, ma già attraversata sotto traccia dal file rouge del genio, che affiora di tanto in tanto nell’opera.

La parte più ispirata è rappresentata da alcuni momenti corali, come il suggestivo coro di crociati e pellegrini che giungono in vista di Gerusalemme all’inizio del terzo Atto e il famoso “O Signore dal tetto natio”, che però resta lontano dalla severa e insieme appassionata nobiltà del “Va pensiero”, di cui si sperava potesse ripetere il successo. Si possono menzionare anche alcuni pezzi d’assieme, come il concertato all’inizio del primo Atto e il terzetto “Qual voluttà trascorrere” fra Giselda, Oronte e l’Eremita/Pagano – impossibile non pensare al sublime terzetto conclusivo de “La forza del destino” – con l’assolo di violino che lo precede.
Insomma, anche sotto il profilo musicale “I lombardi” appaiono un’opera discontinua e frammentaria, nella quale a momenti convenzionali e tirati via alla brava si alternano altri più riusciti. Ma va sempre tenuto presente che questa musica è concepita per esistere non da sola ma in funzione della sua drammatizzazione, cioè della rappresentazione teatrale.
Lo spettacolo messo in scena alla Fenice costituisce un appuntamento prezioso e stimolante, dal momento che viene utilizzata per la prima volta l’edizione critica della partitura, pubblicata dalla University of Chicago Press e Casa Ricordi; e dal momento che si tratta in pratica di un debutto assoluto in laguna, considerato che “I Lombardi” si sono visti una sola volta a Venezia nel 1844, dopo la prima scaligera del 1843.

Purtroppo l’attesa, nonostante il caloroso successo di pubblico che ha accolto la domenicale del 3 aprile, è andata in parte delusa e soprattutto a causa della messinscena (regia Valentino Villa, scene Massimo Checchetto, costumi Elena Cicorella, luci Fabio Barettin, movimenti coreografici Marco Angelilli), che riproduce l’ormai logoro cliché di un’attualizzazione poco incisiva sul piano drammatico e insignificante su quello estetico. Ecco allora la solita soldataglia (cristiana o musulmana non ha importanza) munita dei soliti kalashnikov, delle solite pistole e dei soliti anonimi costumi da magazzino in liquidazione (militare o meno non ha importanza), che si aggira all’interno di una sorta di hangar in cemento, grigio, nudo e squallido oltre ogni dire. Né sembrano più curati i movimenti dei personaggi, che appaiono statici e convenzionali, mentre le masse danno sempre l’impressione di accalcarsi in maniera disordinata e confusa.
Questo triste contenitore, cioè l’hangar, resta di fatto identico e inamovibile per tutta l’opera, con poche ed insignificanti variazioni: un altare sormontato da un’immagine dell’Agnus Dei nel primo atto, una porta in stile moresco ad Antiochia, la carcassa di un’auto in cui alloggia l’Eremita in luogo della caverna prevista dal libretto, qualche tetto di casa sul fondo a rappresentare Gerusalemme. Anche la presa cristiana della Città Santa, simboleggiata dal saccheggio di un minimarket, appare soluzione decisamente al di sotto del livello drammatico del momento.

Questa squallida cornice finisce per avvilire anche i momenti più affascinanti dell’opera, che ne escono mortificati, impoveriti di poesia. Si pensi, ad esempio, al sublime coro di saluto a Gerusalemme all’inizio del terzo atto, soffocato dalle solite pareti di cemento e accompagnato da due striscioni da stadio recanti la scritta “Deus vult”; e l’effetto è lo stesso anche per il coro più celebre, “O Signore dal tetto natio”, ma senza striscioni. Ben poco evocativa anche la scena in cui Giselda sogna lo spirito di Oronte defunto che le annuncia di aver trovato la salvezza, risolta con l’andirivieni di donne biancovestite e velate che si aggirano per il palcoscenico. Più originale e più motivata sul piano concettuale, invece, la coreografia che accompagna il famoso assolo di violino del finale Atto terzo, con due ragazzi che prima si bagnano con l’acqua in un rito di purificazione, poi lottano fra loro finché uno resta morto a terra: la rievocazione dell’archetipo del fratricidio - risalente non solo alla Bibbia ma anche al Corano come riportato dalle scritte proiettate in palcoscenico - al quale far risalire, come pulsione atavica mai definitivamente scomparsa dall’animo umano, la terribile rivalità fra Pagano ed Arvino.

E veniamo alla musica. Il Pagano di Michele Pertusi mostra sin dalla sua entrata in scena un fraseggio nobile ed espressivo di alta classe, imperniato sulla varietà del gioco dinamico e degli accenti, sul ben noto timbro caldo e pastoso, sulla altrettanto nota ed apprezzata impostazione tecnica che gli permette un canto sempre sul fiato, morbido e legato. E si aggiunga la presenza scenica imponente ed austera, per ottenere un’interpretazione di eccellenza, una delle tante alle quali il basso di Parma ormai ci ha abituato anche nel repertorio verdiano.
Si colloca ad un ottimo livello anche la Giselda di Roberta Mantegna, la più applaudita dal pubblico. Il soprano è signora e padrona della seconda ottava, che è limpida, sana e risonante e che l’artista usa con tecnica appropriata per disegnare un personaggio appassionato ma anche fresco ed ingenuo nelle sue perorazioni. Non è, quindi, una Giselda potente e prorompente quella che lancia la famosa invettiva “Ah, no Dio no’l vuole ecc.”, ma che bello questo fervore e questo slancio che profumano di giovinezza, di speranza, di ideali che la vita non ha ancora soffocato. Certo, la zona medio-grave risulta meno piena e sonora, ma l’interpretazione complessiva rimane assolutamente apprezzabile.
Ha convinto meno l’Oronte del tenore Antonio Poli, che sfoggia un bel timbro rotondo, sonoro e seducente nella zona centrale, ma poi, forse come conseguenza, ha acuti stiracchiati, da rivedere nell’imposto. Il canto è stentoreo, prevalentemente appoggiato sul forte e mezzoforte, trasmettendo ad un certo punto una sensazione di monotonia. E poi perché quel colpo di petto, non vistoso ma facilmente percepibile, subito prima di ogni attacco nella cavatina famosa “La mia letizia infondere”? Si sa che aiuta, ma è ormai fuori moda e fuori gusto.
Si fa molto apprezzare, per la vocalità squillante, incisiva e robusta nel non facile ruolo di Arvino, il tenore Antonio Corianò. E figura molto bene anche l’Acciano del basso-baritono Adolfo Corrado, da risentire ancora. Gli altri comprimari sono Marianna Mappa (Viclinda), Mattia Denti (Pirro, meglio in altre occasioni), Un priore di Milano (Christian Collia), Sofia (Barbaro Massaro).
Dopo aver lodato il coro del Teatro, maestoso e duttile nello stesso tempo (il maestro è Alfonso Caiani), resta da dire del direttore e concertatore. Il maestro Stefano Rolli esordisce molto positivamente sul podio della Fenice, dimostrando una piena sintonia, un feeling evidente di natura tecnica ma anche di sensibilità, con la poetica di questo giovane Verdi, ricco di una vitalità forse disordinata ma irresistibile.
Rolli non si tira indietro quando si tratta di dar fuoco alle polveri musicalmente parlando, sa essere irruento, trascinante, anche travolgente quando la situazione drammatica lo richiede, ma la carica che trasmette all’orchestra rimane sincera, sorgiva, non tracima nell’enfasi e nella retorica fine a stessa. E anche i momenti più intimi e raccolti suonano ben curati. A questo risultato si arriva anche attraverso un’agogica serrata, stringente, e una dinamica ricca di contrasti. Molto riusciti tutti i pezzi d’assieme, che coinvolgono emotivamente il pubblico e lo avvolgono in un’onda sonora che prende e porta via.


Adolfo Andrighetti

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